martedì 26 maggio 2009

Il ginecologo 2/2


Foto (marco.manieri/flickr)


... segue da martedì 19 maggio 2009

Mi ha chiamato quindici minuti fa. Stavo dormendo come al solito faccio verso le sei e mezzo del mattino. - Oi, facciamo colazione assieme. Alle sette e mezza al solito bar. A dopo. - Neanche il tempo di rispondere con qualche gemito mattutino che aveva già attaccato. Mi son dunque svegliato. Ed in quindici minuti ho cercato di riassumere la mia vita dell’ultimo anno. Cosa è cambiato. Dove sono migliorato. Come posso nascondere il senso di frustrazione e fallimento che ha ormai preso possesso di tutto il mio corpo, fino a palesarsi al primo sguardo.
“Il lavoro è sempre lo stesso. Continuo a vivere in un appartamento con studenti che non fanno altro che sperare nel futuro. La ragazza che frequento non mi ha convinto a cambiare neanche un millesimo delle mie abitudini. La droga non mi serve più ad aprire la mente ma solo a sedarla per prendere sonno. E anche l’ultimo natale l’ho passato con i miei genitori e tutta la famiglia allargata.”
Mi alzo e vado a lavarmi. Sono quasi le sette e un quarto. Arriverò in ritardo al bar.

Ma ovviamente lui è più in ritardo di me. Mi siedo ed ordino un cappuccino. Non ho voglia di aspettarlo. Prendo il giornale ed inizio una svogliata lettura, delle immagini più che altro. Solite foto di politici. Soliti grandi industriali che parlano e sindacalisti che miagolano. Incidenti. Omicidi rabbiosi. Prostituzione e religione. Guerre sante. Mi rassereno per il fatto che neanche il mondo cambia negli anni.
- Posso sedermi? - Una strana voce di ragazza interrompe una sorsata di cappuccino.
- Sto aspettando un amico ma se vuole può accomodarsi…
Metto a fuoco la ragazza e cerco di andare al di là del seno troppo prosperoso per riuscire a vedere l’intero volto: io sono seduto e lei, in piedi, mi punta addosso le sue armi. Ma proprio quando mi svincolo portando indietro il busto ed alzando il collo oltre la scollatura del vestito, proprio in quel momento in quella ragazza riconosco Luca.
- Chiamami pure Esperanza. - Rimango fermo col cappuccio in mano. Sto cercando a fatica di non farlo cadere. Lei si siede.
- Sei cambiato…
- Lo so. È stato difficile ma credimi: sto molto meglio adesso. Dall’ultima volta che ci siamo visti ne sono cambiate di cose. Dopo il funerale del mio vecchio, sai che è morto l’anno scorso?, sono partito per la Spagna. Viaggio di riflessione. Ed ho finito col riflettere che volevo provare a passare dall’altra parte. Volevo provare a fissare il mio di seno. Essere sedotto come ho sempre fatto io con le donne, come hai sempre fatto anche tu. Ti ricordi il morso sulla chiappa della tipa spagnola? Come si chiamava?
- Gui… Guiomar… - balbetto una risposta.
- Sì esatto! Credo sia lei. Comunque sono restato un po’ di tempo a Madrid. Ho vissuto per mesi in una camera di albergo e mi ubriacavo tutte le sere. Una sera sono finito in un locale “alternativo”, nella famosa Chueca, hai presente? E lì un ragazzo si avvicina e inizia a parlarmi. Io non capivo nulla. Ero solo un po’ nauseato e volevo vomitare. Penso di averlo fatto. Ho vomitato e la mattina dopo mi sono svegliato nel letto di sto tipo.
- Dovresti provare anche tu. Non fa male come pensavamo. È diverso. Una sensazione mai provata prima. Stimola le terminazioni nervose che abbiamo..
- Posso portare qualcosa per la signorina? - La cameriera interrompe il discorso per prendere le ordinazioni, e mentre lo fa ammicca con un sorriso a Luca Esperanza.
- Un caffè grazie. - Risponde lei con voce falsata, per poi riprendere a parlarmi, una volta allontanata l’estranea, con la sua vecchia voce.
- Comunque ho cambiato la mia merdosa vita. Ho scoperto che il cambio che cercavo lo avevo sempre avuto sottocchio e semplicemente non lo vedevo. Tutto quel fissare di tette, ora lo comprendo. Altro che invidia del pene. Non hai mai capito un cazzo di psicologia.
- E senti – prosegue lui – come va? Anzi non dirmelo. Non voglio pensarti ancora con quel lavoro, in quella casa e con una donna che non riesce neanche più a farti smettere di dormire guardando vecchie puntate di Santoro. Ma per fortuna ora ci sono io…
Arriva il caffè. Altro sorriso ammiccante tra i due.
- Ti ho pensato in quest’anno e per una volta ho deciso di farti un regalo. Questo - tira fuori da una orrenda borsetta rosa una busta – è un biglietto di sola andata per il Portogallo. Ho pensato che ormai la Spagna è troppo blasonata e poi in Portogallo c’è Vincent, un mio uomo. Lui è architetto ed ha bisogno di un giovane creativo come te per alcuni lavori. Gli ho parlato molto bene di te. Non deludermi.
- Adesso però devo andare. Devo far prendere un bello spavento a mia madre. Speriamo le regga il cuore. Mentre esco ti chiamo un taxi. L’aereo parte tra – guarda l’orologio d’oro sotto il polsino – un’ora e mezzo. Meglio non perdere tempo. Nella busta troverai le indicazioni per metterti in contatto con Vincent. Un bacio caro.
La vedo avviarsi verso l’uscita a passo spedito.
Sono ancora intontito quando la cameriera mi porta il conto. Lo leggo. Pochi euro per il caffè e il cappuccino. Sto per pagare quando mi squilla il cellulare. Mi chiamano dall’ufficio. Primo problema della giornata. Guardo il piccolo schermo senza capacitarmi di quello che sta succedendo. Fuori vedo fermarsi il taxi che abbassa il finestrino e parla con Esperanza, la quale mi indica e poi va via. A passo spedito.
Lascio il cellulare squillante al posto dei soldi. Metto la busta nella tasca della giacca e corro verso l’uscita.
Salgo sul taxi che parte direttamente in direzione aeroporto e butto la testa indietro sui sedili cercando un punto fermo. Lungo il tragitto estraggo dalla giacca la busta. Controllo il biglietto: per Lisbona, delle nove e venticinque. Poi cerco dentro la busta le indicazioni per entrare in contatto con Vincent ma trovo solo un foglietto con una scritta a rossetto: “non voltarti mai”.


Foto (PaoloNollo/flickr)



Fine

martedì 19 maggio 2009

Il ginecologo 1/2


















Foto (simone.onofri/flickr)



- Secondo te le ho guardato le tette?
- Come?
- La cameriera: hai notato se ho fissato le sue tette?
Così era iniziato il nostro ultimo incontro. Quasi un anno fa o poco più di un anno fa, non importa. Con lui capitava quasi per caso di incontrarsi. Non si faceva sentire per mesi e mesi e poi ad un certo punto, senza nessun motivo, una chiamata alle sette del mattino: - Facciamo colazione assieme? Solito bar… Sì proprio quello lì… Bravo: proprio quello in piazza. Tra mezzora lì. - E metteva giù.
In quell’ultima occasione arrivò in ritardo come al solito. Ricordo che quando entrò nel bar ero al telefono con un corriere. Primi problemi della giornata. Accomodato su una poltroncina del bar, cercavo di far comprendere con uno spagnolo troppo arrugginito il perché alle nove in punto dovevo avere un determinato pacco in ufficio, fosse crollato il mondo. – El mundo tenrà que esperar a caer!
Si avvicinò senza batter ciglio, con quel suo strano passo incostante, un po’ a scatti. Si sedette di fronte a me ed iniziò a sfogliare un giornale, chinandosi a leggere solo le notizie più brevi. Dopo poco arrivò la cameriera a prendere le ordinazioni. Ordinai un cappuccio mentre ero ancora al telefono. Lui fece lo stesso.
Due secondi dopo la chiamata finì e nascosi il cellulare nella tasca della giacca. Facemmo passare alcuni istanti che furono interrotti da quella strana domanda del mio grande amico Luca, il ginecologo:
- Secondo te le ho guardato le tette?
- Come?
- La cameriera: hai notato se ho fissato le sue tette?
- Della cameriera?
- Sì, della cameriera. Gliele ho fissate?
- Ma, non lo so! Cioè, non l’ho notato. Perché?
- Ho paura di non accorgermi di fissare i seni delle donne. Spesso quando parlo con una ragazza noto che ad un certo punto questa inizia a guardarsi il petto.
- Hai visto la cameriera fissarsi il petto?
- Sì. O almeno: credo.
- Forse controllavi fosse tutto a posto. È normale per te fissare i petti: è occhio clinico il tuo. - Cercai di portare un po’ di stupida ironia nella paradossale conversazione.
- Lasciamo stare - tagliò corto lui mentre vedeva avvicinarsi la cameriera con i cappuccini.
- Come và con Carmen? – iniziai con le solite domande di routine mentre la ragazza posava le tazze sul tavolo.
Luca aspettò che si allontanasse e rispose - Lucia vorrai dire? Carmen è storia di mesi fa.
- È uguale, come va la sfera sentimentale? Forse da questo potremmo capire perché guardi i seni delle cameriere.
- Non lo faccio intenzionalmente! E poi succedeva anche quando uscivo con Lucia.
- Uscivi?
- Sì. Uscivo.
- L’uso dell’imperfetto suggerisce che si tratta di una abitudine del passato.
- Non l’ho più chiamata da quando ha avuto la malaugurata idea di farsi visitare da me e non più da mio padre. – si girò di scatto come se avesse sentito un rumore brusco provenire dalla porta, e poi, come se nulla fosse, riprese - Le donne cambiano quando le conosci dal di dentro.
- Quando si dice che il lavoro influenza la vita sentimentale.
- Non è quello che pensi tu…
- Io non penso nulla, non riesco nemmeno a comprenderti. Smetti di uscire con una solo perché le hai guardato la vagina in studio e non a casa o in macchina. Tra tutte le scuse, questa è la peggiore.
- Vedi che non capisci! Dopo averle visitate io conosco i loro punti deboli: se hanno qualche infezione o se l’hanno mai avuta, qualsiasi traccia di malattia venerea, se tende a destra o a sinistra, se il loro ex era Rocco Siffredi o meno.
- Vedi che si finisce sempre a parlare di misure: classica invidia del pene. - sentii addosso uno sguardo di condanna dopo una tale battuta, e così dovetti rimediare. – No dai, scherzo. Non è che invece una volta visitate smettono di essere Carmen o Lucia o Clara e diventano una paziente qualunque?
- Non è questo. È una questione di rapporti di forza, conoscere dall’interno una persona, in maniera clinica, ti posiziona su un piano gerarchico più forte. Viene a cadere quell’equilibrio che mantiene sana una relazione. Come se uno psicologo psicoanalizzasse la moglie. A quel punto lei diventerebbe la parte debole della coppia.
- C’è a chi piace questo gioco.
- Non a me, lo sai.
A quel punto la discussione passò agli anni di conoscenza che ci univano e a come eravamo diversi prima, quando si pensava di avere dei principi, una coerenza morale. “Prima” eravamo studenti, immersi nei nostri sogni. Avevamo il potere di cambiare il mondo, solo che un giorno ci siamo svegliati ed il mondo era cambiato senza di noi, o era stato lui a cambiarci. Scegliete voi il luogo comune migliore.
Perché stesso le nostre storie erano diventate un luogo comune. Luca finì gli esami per affiancare il padre nel suo studio ginecologico. Io conclusi l’università sognando una carriera all’insegna della creatività e mi ritrovai invece a lavorare come coordinatore della distribuzione delle free press, quei giornali che vengono consegnati ai lavoratori alienati all’uscita delle stazioni. La mia tortura consiste nel fatto di lavorare a stretto contatto con ragazzi più giovani di me di una decina d’anni, quelli che hanno il potere di cambiare il mondo insomma. Quelli come il me di “prima”.
- Perché non hai ancora cambiato lavoro?
- Ci sto lavorando: mando curricula in giro, ma nessuno vuole assumere un trentenne la cui creatività è stata imprigionata per cinque anni in un ufficio di quattro metri quadri a controllare che fine facesse ogni singola copia di un giornale che nessuno è disposto a pagare. - Presi fiato e mi risvegliai demoralizzato.
- Soldi da parte ne hai. Perché non molli tutto e vai a cercare altrove, all’estero, in Spagna. Non era il tuo sogno un tempo: la Spagna.
- E se poi non va? Torno con mammà a casa a farmi stirare i vestiti? A non potermi permettere neanche un cappuccino la mattina?
- Ma se quando andavi all’università non bevevi mai il cappuccino di mattina. La verità è che hai paura di cambiare, di ritornare a sognare. Manda sti cazzo di curricula anche all’estero. A quel tuo amico di Valencia. Fai qualcosa. Muovi un po’ la tua vita. - Stava alzando la voce, quasi infervorato. Sembrava infastidito dal semplice fatto di vedermi seduto di fronte a lui, in quel bar, a far colazione mentre si avvicinavano le otto e mezza e tutti e due eravamo in ritardo per andare a lavoro.
Si mise comodo sulla sedia. Fissò una pagina del giornale lasciato aperto davanti a lui. Lo chiuse e si congedò.
- Io vado, ci sentiamo. – Come al solito non si dilungò in convenevoli. È sempre andata così, nessuna stretta di mano, nessun saluto abbellito con parole di cortesia.
Lo vidi uscire mentre riflettevo sulla possibilità di alzarmi a mia volta ed andare, ma la cameriera mi ricordò del conto. Pagai ed aspettando il resto mi misi a sfogliare le pagine del giornale. Una macchia di cappuccino attirò il mio sguardo sulla bacheca degli annunci funebri: “Giuseppe Scornamiglio prende parte al dolore della famiglia Preganti per la scomparsa di Carlo”, il padre di Luca.


Non andai ai funerali, sapevo che non avrebbe voluto. Ripensai alla nostra discussione e mi sorpresi per come mi fosse apparso normale. Non un tono della voce che tradisse sofferenza e tristezza. Anche quando si era infervorato accusandomi di codardia. Anche in quel momento era il Luca di sempre. Stesse modalità. Stessi comportamenti.
Eppure amava suo padre. A tal punto aveva desiderato il suo bene che si fece convincere a frequentare medicina e laurearsi in ginecologia per aiutarlo in studio, per non lasciarlo invecchiare da solo neanche sul lavoro. Sua madre li aveva lasciati diversi anni prima, quando noi si frequentava ancora il liceo. Lei si risposò poco più tardi con un oculista. In passato aveva accusato il marito di averla tradita con diverse pazienti. Luca non ha mai saputo se fossero falsità o meno. Fatto sta che la signora Preganti, per ripicca, iniziò a frequentare tutti gli studi del quartiere. Medici di base, dentisti, fisioterapisti, chirurghi, podologi, radiologi, per finire con l’oculista, lei che ha sempre visto dieci decimi.
Luca non sembrava soffrirne di questo. Avevamo già negato la sacralità del matrimonio affermando l’importanza della libertà individuale tradotta in libero scambio di sesso, senza anelli in cambio ed a qualsiasi età. Ci applicavamo spesso nel tentare di dare forma concreta al nostro pensiero, con enorme successo per lui, senza per me. Mi capitava spesso di innamorarmi in cambio di prestazioni sessuali, e questo mi portò a fare diversi errori. Distrussi la macchina dei miei genitori quando frequentavo una pilota di kart. Mi diedi allo spaccio di droga perché durante una occupazione avevo dormito con una irriducibile cannabinoide. Finì a vivere un anno in Spagna dopo aver morso su una spiaggia di nudisti il sedere di una ragazza e non aver ricevuto un ceffone in cambio. Olé.
Luca invece non si innamorava. Sempre libero come un marinaio, ed in uno dei suoi spostamenti mi venne a trovare in Spagna. Per un solo giorno. Era diretto in Portogallo ad un rave semi clandestino. Andava per varcare le porte della percezione. Io lo seguii e fu in quel momento che finì l’amore per Guiomar.
Fu l’ultima estate prima di diventare grandi. Verso gli ultimi anni di università infatti iniziammo a cambiare: ognuno scelse la propria visione del mondo. Luca divenne sempre più irremovibile sulle sue posizioni. Io sempre più blando. Fatto sta che ci ritrovammo entrambi insoddisfatti della propria vita. Entrambi intrappolati in quattro mura aliene, cadute dall’alto, che non avevamo scelto. Per questo ci si incontrava poche volte. Cozzavamo su tutto ma quando ci si incontrava avevamo la possibilità di sfogare la nostra frustrazione l’uno sull’altro. L’ultima volta era toccato a lui, oggi toccherà a me.
























Foto (il Martini/flickr)


Continua martedì 26 maggio 2009

martedì 12 maggio 2009

Oggi pure..

- CAUSA FEBBRE SI RINVIA DI UNA SETTIMANA L'ATTESISSIMA USCITA DE "IL GINECOLOGO" -

Potrei limitarmi a chiuderla così. Potrei evitare di rassicurarvi dicendovi che non si tratta del temibile virus di derivazione suina, ma solo di una tre giorni di febbre alta condita di maldigola. Trentanove gradi di calore corporeo che mi hanno inchiodato a qualsiasi superfice orizzontale della casa, assecondando la mia naturale tensione al riposo profondo: non la morte, semplicemente il sonno.

Potrei anche non approfittare dell'occasione per avvisarvi che il racconto dal titolo così interessante e provocante - Il ginecologo per l'appunto - rischia di essere l'inizio di una lunga pausa di silenzio.

Potrei non farlo ma lo faccio! Scopro le carte! Ho finito i racconti!

Non è che li ho finiti. Ne ho talmente tanti nella mia testa che la notte mi addormento lasciandoli posare sui sogni e, lentamente, scivolare al di sotto del cuscino, permeare il materasso, attraversare gli spazi liberi tra le doghe in legno e pogiarsi sul pavimento, nascosti, sotto forma di grigia e batuffolosa polvere.

Ma non è neanche un problema di pulizie. E' piuttosto un semplicissimo problema di tempo. Non quello che manca sempre, ma quello da costruire, secondo su secondo per ottenerne di dedicato. Dedicato alla concentrazione necessaria per pensare ad un pensiero felice, raccogliere i batuffoli di polvere sotto al letto e trasformarli in un racconto. Non trovo un posto sicuro dove costruire un rifugio di secondi. Penso sia normale in scrittori di cotanta fama come la mia!

Ma disperare e decretare la fine di un talento è l'azione da evitare. In questo momento. Perchè un talento è immortale. Non si spegne come una stella cadente, bensì si poggia sul fondo del mare come un granello di sabbia. Compone i bellissimi fondali che noi tutti ammiriamo dall'altro lato dell'onda. I fondali sono composti da milioni di granelli di sabbia, come milioni sono i talenti che animano il mondo.

Ora in una provetta raccogliete un po' di quel fondale. E di quell'acqua. Chiudetela bene ed appendetela al collo, o tenetela nella tasca dei jeans. Quella sarà la vostra creatività: diversi talenti incontrati per caso.

Sarà vostro compito, ora, andare in giro e scambiare parte dei vostri granelli di sabbia con i granelli di sabbia altrui. E, quando uno di quei granelli incontrerà il granello giusto, in quel momento, proprio grazie a quel contatto, vedrete che un altro racconto apparirà su questo blog. E sarà sempre firmato da Lui, cioè me:
Ignazio Nollo

martedì 5 maggio 2009

Il pilota Mario 2/2


Foto (*mklex/flickr)


... segue da martedì 28 aprile 2009

Al piano degli arrivi sono tutti sereni. Chi arriva è felice di essere tornato o partito. Di sentirsi di nuovo a casa o finalmente spaesato. Chi aspetta accoglie l’aspettato con abbracci, strette di mano e, sempre, un sorriso. Anche quando le condizioni circostanti non lo permetterebbero.
C’è un ragazzo che aspetta in piedi davanti all’entrata. Aspetta la madre, che torna dagli Stati Uniti con il diretto da New York delle 16e30. Ha lo sguardo buio, mentre pensa al padre scomparso appena il giorno precedente. Lui odia sua madre fuggita in cerca di speranza in un altro paese, con un altro uomo. Ma adesso si è ritrovato solo di fronte al suo dolore, quello della madre. Non sa perché ma dall’odio è passato alla comprensione. Scappare alla fine non è da vigliacchi, non più che restare. Il ragazzo lo ha appena compreso ed è per questo che quando abbraccia la madre, appena spuntata al di qua della porta, la stringe forte e piange con lei. Piangono in silenzio, ritagliandosi uno spazio di intimità in una sala piena di gente che li osserva. Piangono ma quando si guardano sorridono.

La storia di Amina, ragazza senegalese, hostess di una compagnia che la obbliga a vestire colori ridicoli, mi porta al piano di sopra. La vedo attraversare le porte a vetri al primo piano e camminare sicura verso l’altra parte del corridoio, verso le scale mobili. Le hostess hanno la capacità di non dover mai aspettare. Sempre puntuali entrano ed escono dall’aeroporto al momento giusto, ne un secondo in più ne uno in meno. Le loro colleghe che lavorano a terra ogni tanto capita di vederle sconsolate, annoiate in attesa del permesso ad imbarcare. Ma le fate dei cieli mai, loro no.
Ed Amina non è da meno. Il ritmo dei suo tacchi scandisce i secondi che lei sa impiegherà per arrivare all’imbarco. Ha già calcolato tutto. Anche la pausa al bagno. La seguo fino all’angolo, poi decido di aspettarla fuori. Passano diversi minuti durante i quali ho il piacere di osservare le famiglie prese nell’imballare le valige delle vacanze a Sharm. L’uomo d’affari in giacca e cravatta pronto per Dubai. Il ragazzino che saluta la ragazza al momento dell’imbarco. L’interminabile fila del check-in, dove le valige si alternano alle persone, le ruote dei carrelli ai piedi.
Amina intanto non esce, ed io decido di entrare. Controllo che nessuno mi noti mentre varco le porte della toilette femminile e subito mi infilo in uno dei bagni. Sento il chiavistello di una porta aprirsi. Dalla porta socchiusa spio verso l’esterno. È Amina. Si lava le mani, riprende la valigia lasciata in un angolo ed esce. Sto per ricominciare a seguirla quando un altro rumore mi ricaccia dietro la porta. Dalla stessa porta di Amina esce Mario, pilota un po’ attempato ma dallo sguardo giovane. Lo osservo chiudersi la cintura davanti allo specchio e sciacquarsi la faccia. Lui ha appena finito il suo turno, tornato da un volo internazionale. Bentornato Mario.

Le mie storie si susseguono l’una alle altre. Le osservo, le creo unendo gli elementi e poi le narro a me stesso, nascosto in un bagno femminile a guardare Mario attraversare l’uscita. Esco dal mio nascondiglio e mi osservo allo specchio. La mia storia qual è? Cerco di guardarmi come se non mi conoscessi. Quali elementi potrebbero farmi capire il segreto che mi porto dentro. La voglia di fare. Sono vestito normale, e pettinato normale. Non do nell’occhio per una mia stravaganza. Maglietta nera sotto un maglione nero. Pantaloni neri. Sembro un normale cittadino che paga le tasse e va a fare la spesa il sabato pomeriggio. Il mio nome è qualsiasi, più qualsiasi di quello di Mario, facesse anche Rossi di cognome.
Non ho cicatrici e il mio sguardo è pacifico, di chi non ha mai affrontato i conflitti, ero troppo occupato a contare. Uno, due, tre. L’importante è non pensarci. Avvicino il viso allo specchio, voglio vedermi da più vicino. Voglio osservare i miei occhi e cercarvi una luce. Mi avvicino piano e con cautela, potrei perdermi il momento giusto per una eccessiva velocità. A due centimetri dalla superficie dello specchio, quando il mio naso sta per fondersi con quello del mio gemello intrappolato dietro il vetro, la noto. Vedo una luce nell’occhio che lo riempie di tristezza. Soffro, quindi sono vivo. Riesco a vedere la mia sofferenza, quindi non sono ancora fottuto.

Esco dal bagno di corsa e raggiungo il primo bancone che incontro. Compro un biglietto per Parigi, ed uno da Parigi a Miami. Da Miami prenderò un terzo volo per Bogotà. Vado a sviluppare il mio progetto, senza Sottosegretari. Basta aspettare, basta contare.
All’imbarco ripenso a quello che sto lasciando. Le tapparelle aperte in casa. Il pesce rosso senza cibo. Un lavoro voluto e cullato per tanto tempo, dopo tanti sforzi e tante attese. Giulia, che stasera mi aspetta al ristorante, alle otto e un quarto. Il divano dove faremo sesso. E la doccia che mi sveglierà domattina. Lo sto facendo. Li sto lasciando qua. Subito ripenso allo specchio. Alla luce che non si è ancora spenta. Devo fare in fretta. Un altro giorno qua e potrebbe essere tardi, potrei essere perduto. Ticchetto nervoso le dita sul passaporto. Il momento sta arrivando ma me ne accorgo veramente solo quando mi siedo al mio posto, già nell’aereo. Tra i sedili davanti intravedo la porta dell’aereo. Le persone hanno smesso di entrare. Quanto tempo ci metteranno a chiuderla? Sono ancora in tempo per varcarla all’incontrario. Potrei scendere e tornare a chiudere le tapparelle. Entro le otto sarei da Giulia. Il divano. Il pesce rosso. Quanto tempo ci metteranno a chiuderla? Chiudo gli occhi ed aspetto, mentre le mie labbra formano suoni sordi: uno, due, tre, quattro, …




Foto (il ramingo/flickr)



Fine

martedì 28 aprile 2009

Il pilota Mario 1/2


Foto (signorDavide/flickr)




Da piccolo avevo un infallibile metodo per alleviare l’attesa: contavo i secondi. Iniziai a farlo durante le lezioni di matematica, mentre i miei compagni venivano chiamati alla lavagna dando il via ad una lenta processione di balbettamenti ed espressioni monosillabiche. Apriva le danze il Crisafulli che, in un bagno di sudore, era in grado di disegnare simboli illeggibili solo lontanamente simili ai numeri arabi. Veniva poi il turno di Beatrice, maledettamente bella ai miei occhi di infante ma altrettanto intollerabile all’ego a causa della sua totale incompetenza in matematica: delle semplici sottrazioni si trasformavano in viaggi senza meta sulle guance imbarazzate della graziosa.
Pian piano passavano tutti per la lavagna lasciandomi il solo ad attendere un lontanissimo turno. Zucchetti: ero io, l’ultimo in ordine alfabetico, l’ultimo ad essere interrogato.
Così, per non annoiarmi davanti a scene patetiche e pianti supplichevoli, mi rifugiavo trai numeri. Li elencavo uno ad uno, in silenzio, finché non fosse arrivata la maestra ad interrompermi. Contavo ogni secondo cha passava, arrivando a cifre astronomiche e senza perdere mai il conto. Ai milleseicentoquarantasei Crisafulli tornava al banco sconsolato. Ai tremilacinquecentotre Beatrice arrossiva fino quasi a piangere. Ai quattromilasettecentosessanta Luchino iniziava un’interminabile retorica per nascondere palesi difficoltà con le divisioni.
Finalmente, verso gli ottomilaseicento arrivava il mio turno. Mi alzavo in silenzio dal banco, evitando gli sguardi d’odio e di compassione dei compagni. Odio per l’arrogante talento in matematica, compassione soprattutto per quel gilè rosso che la mamma mi obbligava a portare fin dal primo anno di elementari. Il suo essere stretto, rovinato e sicuramente demodé mi relegava nel girone dei socialmente perdenti. Ma per la maestra, ovviamente, era il contrario.
La maestra seguiva dalla cattedra il mio arrivo, sorridendo: ero il suo pupillo, l’unico a darle soddisfazione in tanti anni di frustrante lavoro tra “piccoli delinquenti in divenire”. Alla lavagna iniziavo a dedicarle i miei ragionamenti. Sottrazioni e divisioni si scontravano con addizioni e moltiplicazioni. Guerre di numeri, armati di lance, scudi, virgole e parentesi. La guerra era condotta da due acerrimi rivali: me stesso e la stupidità.

Una solitaria crociata contro l’incapacità diffusa di gestire i numeri: così potrei descrivere le mie elementari.
Negli anni però l’amore per la matematica è scemato, con grande dispiacere dei professori. “A volte ciò per cui sembriamo essere nati è solo quel che gli altri vedono del nostro futuro”. O almeno è così che mi giustifico.
Alle medie ho maturato un profilo basso per sopravvivere ai compagni fisicamente più grossi, anche se con pochi risultati. Alle superiori il profilo è esploso tra occupazioni e manifestazioni, fermi in questura, bocciature e sprint finale per dimostrare che in fondo potevo valere qualcosa anche senza la matematica. L’università: finita in cinque anni e una volta dottore in sociologia stetti diverso tempo senza sapere dove indirizzare la mia vita. Finché non mi inserii a pieno ritmo nella cooperazione internazionale. Lavoro: entusiasmante.
Dell’amore per i numeri mi rimase però l’abitudine di contare i tempi morti. Ho contato i secondi di tutte le attese della mia vita. Ho contato dentro l’armadietto alle medie, obbligato a passarci gli ottocento secondi dell’intervallo. Ho contato i secondi che impiegavo a fumare le mie prime sigarette, trecentoquarantasei secondi, sempre. Il mio primo bacio è durato trecentoventiquattro secondi durante i quali non vedevo l’ora che Beatrice si staccasse da me. L’effetto della prima canna, invece, è stato di seicento secondi circa, steso su un prato, sperando di ritrovare le forze per rialzarmi. Ho contato i secondi di metropolitana per arrivare a lavoro. Quelli passati nel traffico. In fila dal dottore. Al supermercato. Aspettando il taxi. I secondi necessari affinché smettessi di sperare che mio nonno si alzasse dalla bara.

Può sembrare scontato ma sto contando anche ora, seduto su una poltroncina in pelle di una grande e lussuosa sala d’attesa. Sono già arrivato a settecentocinquantasei secondi e la persona che sto aspettando, il Sottosegretario agli Esteri della Repubblica, ancora non si vede. Devo presentargli un progetto importante, da me sviluppato ed organizzato in ogni minimo dettaglio.
Per frenare il nervosismo conto più velocemente del solito: più veloce della normale scansione del tempo. Tento allora di rimettermi al passo e osservo l’andamento delle lancette: click, clock. Click, clock. Click, clock… Mi sento chiamare da dietro le spalle: “L’onorevole l’attende nel suo studio”. Mi alzo ed entro nel suo studio per uscirne appena cinque minuti più tardi, con le spalle incurvate intorno al collo, sguardo perso verso l’infinito. Triste.
“Purtroppo dovrete rinviare l’avvio del progetto almeno fino al formarsi del nuovo governo. Queste elezioni anticipate hanno sconvolto diversi piani. Vedrò però di lasciare una nota positiva su di questo progetto al mio successore. Si tratta di un lavoro molto interessante e non vale la pena lasciarlo da parte. Purtroppo in qualsiasi caso ci sarà da aspettare almeno un paio di mesi”.

Mi avvio verso casa sconsolato e rassegnato a contare i secondi per almeno un paio di mesi. In ufficio aspettano mie notizie, ma penso che li farò aspettare un altro po’. Spengo il cellulare e salgo sul tram del ritorno. La delusione inizia a scatenare la mia perversione “C’è da aspettare? Che cosa mi può costare? Del resto io sono l’esperto dell’attesa. – Pausa – Memorizzerò l’orario ed il giorno in cui sono uscito da quell’ufficio e conterò tutti i secondi che passeranno fino alla formazione del nuovo governo. Quando non potrò contare i secondi lo farà l’orologio per me. Così, quando tornerò ad avere tempo per contarli, mi basterà guardare l’ora, calcolare i secondi passati dalla data di inizio, e ripartire a contare”.
Ormai convinto che questa sia la soluzione migliore e più logica per non sentire l’attesa, mi preparo ad iniziare l’impresa. Ventuno minuti sono passati da quando sono uscito da quell’ufficio, l’equivalente di milleduecentosessanta secondi. Meno tre, meno due, meno uno: via! Milleduecentosessantuno, milleduecentosessantadue, milleduecentosessantatre, milleduecentosessantaquattro, milleduecentosessantacinque, milleduecentosessantasei …

Mi sono addormentato verso i millequattrocento secondi. Gli occhi si sono chiusi da soli. Per la stanchezza e le emozioni, credo. Li ho riaperti che ero già arrivato al capolinea, almeno quattro fermate dopo la mia. Mi alzo, scendo dal tram fermo e desolato e inizio a camminare guardandomi le scarpe. Ricomincio la mia staffetta con l’orologio: è passata un’ora e tre minuti dal punto x. Ciò significa che devo ricominciare dai tremilanovecento secondi. Sotto i miei numeri, i passi si alternano uno dopo l’altro su un asfalto rovinato. A volte schivano buche, feci canine e pozzanghere. Altre volte invece salgono e scendono dai marciapiedi, saltano da una striscia pedonale all’altra, evitano gli altri passi e a loro volta vengono evitati. Salgono scalini e poi li scendono. Si stancano e decidono di fermarsi ovunque, anche su un treno capitato lì davanti. Entrano i passi nel treno mentre la mente segue a contare. Si avvicinano ad un posto a sedere e si mettono a riposo sul sedile davanti. I miei passi mi hanno portato alla stazione, e mi hanno caricato sul treno. Io non li guidavo, mi son limitato a dar loro il ritmo. I miei passi sono saggi, mi hanno portato fino ai ventisette anni e non hanno mai perso un colpo. Quando c’era da scappare correvano, quando bisognava saltare il più lontano possibile volavano. Quando c’era da non pensare, pensavano loro per me.
Una volta seduto sul treno passano pochi secondi e ripiombo in un sonno pesante. Mi sento cullare. Forse sogno, qualcosa di strano e senza senso, che mi farà risvegliare dopo parecchio tempo ma con la certezza di essermi riposato. Aperti gli occhi mi ritrovo nello stesso treno fermo in una stazione aliena, mai vista. Penso per un attimo di aver viaggiato attraverso la dimensione dello spazio tempo, finendo in un universo parallelo. Ma è un cartello a farmi capire dove sono finito: “-> aeroporto”. Seguo la freccia. Ormai sono qui, almeno mi faccio un giro. Salgo su una scala mobile che mi porta al piano degli arrivi, il piano terra.
Centinaia o forse migliaia di persone vagano da una parte all’altra dell’enorme sala. Altre invece riposano su delle poltroncine. Controllando regolarmente l’orologio. Altre ancora poi consumano qualsiasi cosa all’interno dei negozi presenti. Caffè e bevande in lattina. Libri, giornali e riviste. E ancora biscotti con cioccolato, con la vaniglia e con tutt’e due. A turno si avvicinano per poi allontanarsi dagli schermi che indicano l’avvenuto atterraggio o meno dell’aereo. Tutti; seduti; in piedi; camminando; consumando; tutti loro sono lì per una sola cosa: aspettare.
Decido di studiare la loro attesa. Voglio cercare di comprendere le loro tecniche: in quale modo evitano l’insofferenza per il tempo che passa vuoto?
Così li imito. Faccio un giro in libreria e mi metto a leggere i giornali, a sfogliare le riviste ed informarmi sulle trame dei romanzi pubblicati da poco. Faccio pausa e mi dirigo al bar, dove consumo un caffè senza addolcirlo con dello zucchero. Imparo a memoria tutti i voli in atterraggio da qui a due ore e torno più volte per controllarne la puntualità. Poi mi siedo a guardarmi intorno. Ad ogni viso e persona cerco di associare l’aereo in arrivo e il grado di conoscenza con l’atteso. Madri, padri, figli, fidanzate e semplici amici. Due ragazzi gemelli aspettano qualcuno guardando fissi la porta dalla quale dovrebbe apparire. Ipotizzo siano lì per aspettare la sorella di ritorno con l’aereo delle 15e30 proveniente da Londra. Ogni tanto i due parlottano tra di loro. Sono vestiti uguali, salvo per la camicia, portata da uno dentro i pantaloni e dall’altro fuori. Sono entrambi alti e biondi. Belli di una bellezza un po’ ambigua, e forse per questo, a volte, mi sembra si diano la mano di nascosto, in segno di complicità su un loro segreto che nessuno potrebbe comprendere. Dopo averne narrato la storia li perdo di vista, per vederli passare più tardi accompagnati da una ragazza alta e bionda che, prima uno e poi l’altro, li bacia sulle labbra. Lei sorride.
Una madre di tre figli aspetta il marito di ritorno da Monaco di Baviera, con l’aereo delle 16e10. Ne porta uno in braccio, uno lo tiene sottocchio mentre gli urla di non correre e il terzo lo lascia libero di sedersi su una panchina alquanto distante a leggere un libro più grosso di lui. Occhiali grossi, caschetto castano chiaro, faccia ingenua ma responsabile: avrà sì e no otto anni. Legge immerso tra le pagine, stregato dalle lettere, da come componendosi in varie maniere riescano a formare diversi significati, e i diversi significati cambiano a seconda delle frasi in cui sono inserite. Lo osservo perdersi in alcuni passaggi, concentrato nella comprensione di una parola, una sola che gli impedisce di andare avanti. Guarda la madre, vorrebbe chiamarla in soccorso ma poi ci rinuncia, troppo lontana e troppo impegnata a gridare dietro al fratellino. Suo padre arriva che lui ancora non ha spostato gli occhi da quel rigo. Felice il padre nel vedere le sue creature, felice la madre nel vedere il marito assente da tanto tempo. Felici i bambini nel vedere i genitori assieme. Un circolo di affetto che mi fa sorridere per celare la malinconia che mi provoca quella visione. Il bimbo, col libro in una mano e la mano del padre nell’altra cammina fiero a lato della sua famiglia. Quando mi passano vicino il bimbo mi osserva velocemente e gli torna in mente la parola mancante. Rivolgendosi al padre domanda: –Papà, cosa vuol dire “tedio”?
























Foto (Aelle/flickr)


Continua martedì 5 maggio 2009

martedì 21 aprile 2009

Oggi no..

Questa settimana non c'ho avuto voglia, o forza, o costanza, o..
Questa settimana è di pausa, per non leggere sempre di gente che scappa, fugge, o meglio: cerca nuove strade, viaggia.
Questa settimana è dedicata a chi mi ha scritto che vuole recuperare leggendo i racconti persi per strada, tra una giornata e l'altra..
Questa settimana è diversa da quella...

martedì 14 aprile 2009

Il Milanese 2/2
























Foto (olga slavica/flickr)


... segue da martedì 7 aprile 2009

Il gioco delle zie si fece talmente serio ed impegnato che quando zia Assunta mi chiese una foto per aggiornare l’album di famiglia mi rifiutai categoricamente. Non senza una piccola smorfia di divertimento.

In questo scenario andare a mangiare dalla vecchia zoppa si arricchì improvvisamente di un sapore nuovo: il gusto del mistero. Quel posto diventava sempre di più la concretizzazione della mia intimità. Un luogo dove trovare riposo alla mente. Così, tra una mozzarella e l’altra, dimenticavo le zie e le loro domande. Dimenticavo l’impasse dell’università e della mia vita a Bologna. Dimenticavo le fatiche ed i doveri. Restavo seduto con un’espressione di tranquillità mai avuta prima. Forse tornavo nel grembo materno.

E mai risveglio fu più brutto. Accadde in primavera. Il freddo non minacciava più gli dei ogni mattina. Dovetti trovare un’altra scusa per imprecare: la fatica del lavoro. Avrei preferito stare in giro per la città a prendere il furgoncino come ogni domenica e giovedì per avviarmi verso l’autostrada. Quel giorno forse il cambiamento lo si poteva scrutare nell’aria. O negli sbirri che mi fermarono per una contravvenzione, riempiendomi di domande sul perché viaggiassi verso sud su un vecchio furgoncino.
Ma la sorpresa più amara fu il trovare al posto del ristorante dell’anziana zoppa un cumulo di detriti anneriti dalle fiamme. Era andato tutto a fuoco. La sera prima. L’odore di bruciato non mi permetteva neanche di ricordarmi quello della mozzarella di bufala. Chiesi ad un passante. -E’ stato un incendio-, disse lui. Non ebbi il tempo di chiedere chiarimenti che subito continuò: -Povera signora. Divorata dalle fiamme insieme a tutto il ristorante-. Restai spiazzato. -Ma forse è meglio così-, concluse il passante.
Il ristorante. La vecchia zoppa. La mozzarella di bufala migliore che avessi mai assaggiato. Tutto finito. Ben tornato al mondo.
Poiché al peggio non c’è mai fine, andai da zia Assunta per consumare un buon pasto. La avvisai dell’arrivo imminente con una telefonata. Una volta sul posto mi ritrovai l’intero ufficio investigativo partenopeo dietro ad un piatto di parmigiana. Sul tavolo anche una mozzarella di bufala. La mangiai senza piacere, tra gli sguardi incuriositi delle zie. Quando stabilirono avessi mangiato abbastanza, iniziarono con le domande. Parlava zia Assunta per tutte. Come mai non mangi con la tua fidanzata? Vi siete lasciati? Non ci vuoi proprio dire chi è, o chi era?
Guarda che ti abbiamo scoperto! Il fratello della moglie di Zio Peppino ha detto di averti visto al Ristorante Mirabella la settimana scorsa. Da solo. Come mai? Cosa ci nascondi? Perché mangi in uno stupido ristorante sulla statale piuttosto che dalle tue zie? Non ti piace la compagnia? Non stai più bene con le tue zie? Tu stai combinando qualcosa di losco!
-Sono gay.- Confuso silenzio.
-Come?-
-Sono gay e quel ristorante è frequentato da soli gay. Io vado lì per conoscere nuovi ragazzi.-
Glielo dovevo. Al fratello della moglie di Zio Peppino: andasse a spiegare a sua sorella cosa ci faceva in un ristorante per gay. Prima di tutto la vendetta.
In un secondo mi ritrovai fuori casa, diretto da mia cugina. Pensavo alla stupidità e cecità delle zie. Pensavo che era tutto finito. Pensavo e respiravo con affanno. Dove andrò adesso? Provavo rabbia al ricordo del ristorante andato in fiamme. Non mi importava se a mandarlo a fuoco fosse stata una fuga di gas, la camorra o le zie. Mi rodeva solamente nell’animo il fatto che io non potessi più andarvi a mangiare la mia mozzarella.
Non riuscii a dormire per la notte intera ed il giorno appresso tornai sconsolato col mio carico di mozzarelle. Ne mangiai una come al solito. Buona, non male, ma non è lei.

Continuai quel lavoro per diverso tempo. Ritornai ad un equilibrio instabile nel mio essere studente del nulla e lavoratore inesistente. Più o meno riacquistai interesse per le mozzarelle di bufala. Ma continuai a mangiarle sempre con in testa lei. Le comparavo. Cercavo nel boccone quel sapore nascosto che solo la mozzarella di bufala dell’anziana zoppa aveva.
I cambi di caseificio si fecero più frequenti nella disperata ricerca del caseificio che aveva approvvigionato l’anziana. Mi riusciva difficile tornare sempre dallo stesso pensando che da qualche parte vi è una mozzarella tanto buona o almeno una che la potesse eguagliare. In ogni caseificio nuovo trovavo sempre un difetto. Troppo siero, troppo poco. Un po’ acida. Troppo poco acida. Fredda. Calda. Di plastica.
Qualche volta tornai anche a mangiare dalle zie, quasi per divertimento. Mi guardavano con occhio indagatore. Cercavano il dove fosse la differenza. Forse mi volevano chiedere addirittura se sapessi qualcosa delle tendenze sessuali del fratello della moglie di zio Peppino. In quel silenzio carico di domande mi ci trovai ben presto comodo. Pensando alla sbronza della sera prima. A chi chiamare per la sera successiva e cosa fosse aperto di Lunedì. Pensando. Pensando.
Pensavo anche il giorno successivo in macchina. Mentre mi avviavo col carico pieno verso la statale. L’ultimo caseificio dal quale mi ero approvvigionato restava di molto perso nella campagna attorno al paese. Pensavo quando notai un cartello nuovo con l’insegna che andava ad indicare un caseificio. Da Graziano si chiamava. Certo. Da Graziano. Come non ricordarsi quel nome? Graziano.
Sterzai all’improvviso e seguii le indicazioni fino al caseificio. Prima di entrare cercai di stemperare il nervosismo che mi premeva in corpo. Avanzai fino al bancone e chiesi con tutta tranquillità una mozzarella di bufala, sì solo una. Da 250 grammi va benissimo. Mi passò a lato il ragazzo che quel giorno portava le mozzarelle alla vecchia zoppa. Il posto deve essere questo.
Mi misi in disparte, su un tavolino improvvisato. Forchetta e coltello di plastica in mano. E iniziai a tagliare. Niente rulli di tamburo però. Troppa era l’attesa. Niente sorriso della vecchia. Niente tovaglia a quadri azzurri e bianchi. Niente sensazione di mistero. Niente complicità con la mozzarella. Il primo boccone fu una delusione. Buona era buona. Ma mancava di quel qualcosa che la rendeva superiore. Era una mozzarella come le altre.
Per la prima volta non finii una mozzarella iniziata e mi avviai confuso verso l’uscita. -Signore si sente bene?-
-Ho solo bisogno di un po’ d’aria. -Due, tre, quattro passi. Ero in macchina. Partii con ancora la testa che mi girava alla volta di Bologna. Per non tornare più, pensai.

E invece continuo a tornare nella mia terra. E la gente continua a chiamarmi ‘o Milanese. Praticamente passo due volte a settimana con un furgone bello grosso, non più quello vecchio di vent’anni, a ritirare carta e cartoni dai palazzi di alcune vie del paesello. Una volta riempito il camion mi dirigo alla volta di Grosseto. Lì vicino c’è una ditta che utilizza quel cartone per riciclarlo o per spezzettarlo ed usarlo come imballaggio. I guadagni sono più risicati rispetto alla mozzarella, ma è un lavoro divertente. Conosci un sacco di gente: portieri, vecchie signore, giovani signorine, persone povere e persone ricche della sola umiltà. Se la camorra non mi fa fuori prima, questa estate caricherò un paio di brandine sul furgone ed insieme a degli amici di Bologna ed uno di Napoli andremo alla volta del Marocco. Lì è difficile che notino la differenza tra nord e sud Italia. Poi, se vorrò, tornerò, per farmi chiamare ancora una volta ‘o Milanese.


















Foto (Alessandro Di Maio/flickr)



Fine

martedì 7 aprile 2009

Il Milanese 1/2


Foto (La qù-Silvia Matteini/flickr)


La vita, per un figlio di immigrati, è sempre un poco più ridicola, rispetto alle altre. Poi se di quel paesino vicino ad Aversa, conosci solo alcune facce e le case dei parenti durante le feste di Natale, la cosa acquista anche uno strano senso surreale. Ma quando ti iniziano a chiamare terrone, trai banchi di scuola, solo perché di quelle facce e di quelle case vai orgoglioso, al ridicolo si aggiunge anche un po’ di surreale. E così che inizi a pensare come loro: non i compagni di classe, ma gli amici che non hai mai conosciuto, quelli che girano sotto casa di zia Assunta sui loro motorini e sempre senza casco. Inizi a convincerti che nel tuo sangue non potrà mai scorrere l’idea di essere del nord, ma che resterà sempre, nonostante gli manchi l’accento giusto, un sangue terrone.
Dall’interno di quell’aula buia, nonostante fosse una splendida mattinata primaverile, vengo proiettato con la mente ad oggi, sul divano di camera mia. La mia posizione è ferma e fissa. Con il bacino tirato avanti e le spalle che sembrano voler scivolare sempre più verso terra, guardo un punto davanti a me da diversi minuti, forse ore, forse secoli. Rifletto. O piuttosto cerco le forze per alzarmi e partire. Detto fatto. All’appello non manca niente. Giacca, portafoglio, chiavi. Ah, gli occhiali da sole. Quelli fanno la differenza, sempre.
Entro nel furgoncino parcheggiato sotto casa inneggiando ad alcuni santi e morti di chissà quale persona. E’ il freddo a farmi imprecare. Avvio il motore, solita strada, solite persone che si incrociano. Solita entrata verso l’autostrada.

Buongiorno. E’ finalmente l’una del pomeriggio, sono quasi all’altezza di Roma, dopo quattro fottute ore di viaggio. Finalmente riesco a capire di essere vivo e sveglio e a ricordarmi le bevute della sera prima. Finalmente ho la forza di fermarmi all’autogrill e prendere il caffè della mattina. Sono Giuseppe, ma non chiamatemi Beppe per favore. Chiamatemi Bebè come preferiscono i miei più cari amici. Oppure il milanese, come mi chiamano “dalle mie parti”.
Sono uno studente. Studio al Dams di Bologna: recitazione. Ma non diventerò un attore. Ho scelto quest’università per allontanarmi da Milano. Ad un figlio di immigrati Milano comincia a stare veramente stretta verso i diciannove. Così, dopo un anno a giurisprudenza mi sono lanciato nel mondo dell’arte. E sono quattro anni che sono fermo al primo anno, ma con qualche esame del secondo già fatto, da intendersi. Per campare, non potendo chiedere soldi ai miei, mi sono aperto un’attività semi-clandestina. Nulla di pericoloso o troppo illegale. Del resto è iniziato tutto per un puro caso. Amici, amici di amici: tutti hanno iniziato a chiedermi di portar loro delle gustose ma soprattutto originali mozzarelle di bufala. Così due volte alla settimana scendo da qualche parente, vado in un caseificio di fiducia e riempio un furgoncino vecchio di vent’anni di mozzarelle di bufala.

“Dalle mie parti”, dicevo, mi chiamano il Milanese, ‘o Milanese per la precisione. “Raffaè, è arrivato ‘o milanese” li sento urlare quando entro nel negozio. Destino beffardo. Nemico in patria e straniero all’estero. Ho sempre viaggiato su questo binario doppio, ed in verità l’ho sempre presa in maniera ironica. Questo essere a cavallo tra due mondi ma con nessuna patria mi ha sempre aiutato a pensare un passo avanti di quello alla mia destra. Ed infatti sono riuscito a tirare su la mia rete di smercio della mozzarella in poco più di un mese. Amici di amici appunto, ma anche sconosciuti arrivati a me col passaparola. Fanno la fila per aggiudicarsi qualcosa da almeno uno dei miei due viaggi settimanali. La mozzarella di bufala è un bene raro.
E ne ho conferma ogni volta che ritirata la merce mi fermo a lato della strada, scelgo a caso una cassa di mozzarelle da dietro il furgoncino e ne “testo” una. Normalmente dopo un po’ un bravo smerciatore di bufala ha bisogno di cambiare caseificio, di fare a rotazione. O meglio: questa è la mia regola. Perché infatti coi grandi numeri i caseifici reggono poco, e dopo un paio di mesi la mozzarella non mantiene il sapore originario.
Quando il caseificio è nuovo, dicevo, la mozzarella di bufala ti si scioglie in bocca. Ma a dirla così è un po’ riduttivo. Ne tagli un pezzo e vedi il siero circondare la ferita. Apri la bocca e ti avvicini al boccone con le papille gustative e la testa concentrate solo sul momento dell’impatto. La lingua viene a contatto per prima, e senti il siero scendere ed allagare le fauci, finché tutto il boccone inizia a cedere con benevolenza sotto una lieve pressione dei denti. Un paio di masticate e il sapore invece di svanire aumenta. Ma la mozzarella veramente buona è quella che ti lascia quel sapore forte in bocca, quel retrogusto che si deve creare per una strana reazione con l’aria. Aria di Napoli o di Bologna il sapore vincente resta sempre vincente. Non credo a questa storia dell’aria o, più che altro, non penso possa influenzare così tanto il sapore di una mozzarella di bufala.

Mi è andata sempre bene con il traffico di mozzarelle. Bei soldi. Dicevo. Pochi rischi. Coscienza a posto. Parto la Domenica in seconda mattinata per arrivare per l’ora di cena a casa del parente di turno che mi ospita. La mattina dopo passo dal caseificio e ritiro la preziosa merce. Poi alla volta di Bologna, dove in tempo per le cinque-sei del pomeriggio distribuisco le mozzarelle ai richiedenti, senza che mai me ne avanzi una. In questo sono molto bravo. Nel vendere. La fama del terrone, per di più napoletano, mi ha seguito anche a Bologna, qui dove la concorrenza vi giuro è molto agguerrita ed è difficile sentirsi rinfacciare la provenienza. Nonostante ciò con la mia fama di terrone napoletano la gente si fida di me ed al momento giusto, metti che qualche cliente rinuncia alla sua mozzarella della settimana, riesco ad usare la loro fiducia per finire la merce in esubero guadagnandoci il doppio.
Di giovedì, sempre seconda mattinata, parto nuovamente per il secondo giro settimanale. E via così da ormai tre anni.

Un giorno zia Assunta, che mi doveva ospitare, mi disse che non sarebbe stata a casa per cena a causa di un imprevisto urgente. Dopo le domande di rito per assicurarmi che stesse tutto a posto, decisi sul da farsi. Normalmente mangiare dai parenti ha un doppio vantaggio: risparmi e ti riempi, e per uno studente fuori sede sono due aspetti fondamentali che insieme risolvono molti problemi. Inoltre capita di incontrare anche qualche cugina della propria età con la quale scambiare chiacchiere ed uscire ogni tanto. Ma quella sera, per quell’imprevisto urgente, mi ritrovai spiazzato. Così abituato a questa piccola routine settimanale non seppi cosa fare. Ed una volta arrivato in prossimità della casa di zia Assunta non mi rimase altro che fermarmi di fronte ad un ristorante dall’aspetto modesto, dirimpetto alla statale.
Entrai e salutai con garbo e cortesia ma in silenzio, sapendo fin da subito che con la prima parola detta mi avrebbero etichettato come uno del nord. Presi posto in un tavolo isolato, e per un attimo mi sentii anche importante. In quel momento ero un rappresentante, un camionista, un padroncino o qualsiasi altra persona che deve mangiare al ristorante da solo per lavoro. Comunque ero un lavoratore adulto. Questo ti da una certa convinzione di poter essere preso sul serio. Una signora di una certa età mi portò la lista mostrandomi un sorriso accogliente e simpatico. Zoppicava con eleganza e parlava il sua accento in molto gradevole. Scambiammo qualche parola di cortesia e subito il suo fare mi fece dimenticare le arie da adulto. Rimisi le mie vesti e mi sentii molto più a mio agio.
Scorrendo rapidamente il menù fermai il dito su una porzione di parmigiana e un piatto a parte di mozzarella di bufala, senza nulla affianco, le specificai.
Come di consueto mi lanciai sulla parmigiana con voracità e lasciai per ultimo il pezzo forte della cena. Momento solenne. Mi suonai in testa delle piccole trombe per rompere la noia della solitudine. Bloccai la vittima con la forchetta e l’accarezzai con la lama fredda del coltello. Un colpo decisivo e potei avvicinare alle mie labbra la carne sgocciolante di siero per farla tastare dalla lingua. Fino a qui tutto bene. Con semplicità mandai giù il primo boccone e poi pian piano, con calma e un certo stile dato dalle trombe di sottofondo, arrivai alla fine della mozzarella intera. Mi poggiai con la schiena sulla sedia prima di scoprirmi terribilmente soddisfatto di quella mozzarella. Il suo retrogusto stava dando una sensazione inaudita di piacere alla gola, cosicché rimasi del tempo a ripassarlo e ricordarlo, finché la simpatica signora non mi portò un’altra mozzarella specificandomi che era offerta dalla casa. La seconda volta fu una sorpresa ancora più dolce.
-Signora, ma lei dove si rifornisce per avere una mozzarella tanto buona? -Tornai a recitare per convenienza la parte dell’adulto. Volevo essere un rappresentante. Mi avrebbe dato più possibilità di arrivare allo scopo.
-Questo non posso dirglielo. E’ il segreto del ristorante. -Signora 1, rappresentante 0.
-Capisco, ma sa.. glielo chiedevo perché i miei coinquilini vanno pazzi per la mozzarella di bufala e vorrei prenderne un bel po’ da portargli su domani. -Provai la carta del giovane innocuo.
-Mi spiace, è che non posso proprio dirtelo. Io ricevo lo stesso quantitativo di mozzarella da dieci anni tre volte alla settimana, e mi va tutta via con facilità. Comunque riferirò che ti è piaciuta, ne saranno molto contenti al caseificio.
-Grazie lo stesso signora. Mi può fare la fattura gentilmente? Tornai ad essere il rappresentante e mi inventai una ditta ed una partita iva adatta al gioco: De Cecco, P.I. 10438205586603. Sicuramente sbagliai mettendo qualche numero di troppo, ma la cosa rese solo più divertente il tutto.
La sera la passai tranquilla. Arrivai a casa che la zia era già tornata. Era una domenica, così non mi fu difficile addormentarmi subito per recuperare le ore di sonno perse la notte prima.

Non faccio mai colazione quando sono a Bologna, ma qui giù il piacere di un caffè napoletano non me lo perdo mai. Deve essere il luogo a darmi questa sensazione nel berlo. Lo gusto già vedendolo versare dalla moka.

Arrivo dal fornitore che sono già le dieci: mi piace la vita dai ritmi rilassati. Un ragazzino di nove o dieci anni mi aiuta nel riempire il furgoncino e vado via che non sono ancora le dieci e mezzo. Lungo la strada ripasso davanti al ristorante della signora e noto subito un vecchio pandino parcheggiato immediatamente fuori dall’entrata, Un ragazzo sta scaricando dei pacchi. Vi è un duplice scambio di sguardi. Freno per non tamponare la macchina davanti. Lui riprende a scaricare. Sicuramente è mozzarella quella. Osservo il furgone del ragazzo: tombola. Sul lato vi è scritto l’indirizzo e il nome del caseificio. La penna. Il mio impero per una penna. Dov’è? Nel cruscotto? No. Sotto il freno a mano? Nemmeno. Dietro il sedile? Ritenta che sarai più fortunato. Mi suonano da dietro. Terroni di merda. Sto per accostarmi e mandarli a quel paese quando vedo che a suonare è stata un’Alfa della polizia. Al diavolo la penna. Me lo ricorderò a memoria. Faccio segno di scusa con il braccio e riparto. Prima, seconda, terza e via verso casa. Come si chiamava la via del caseificio?

Persa quell’unica occasione di carpire il segreto dell’anziana zoppa, non mi rimase altro che continuare a tornare a farle visita. Con la stessa solitudine ma sempre in compagnia del rullo di tamburi. Ogni boccone era nettare iniettato direttamente sulle papille gustative. Ogni incisione alla perfezione di quel concentrato di bontà era l’annuncio di un amplesso.
Le zie iniziarono a fare domande sul perché non cenassi con loro. Per evitare di rimanerne soffocato dalle loro rimostranze mi inventai una fidanzata: e fu peggio. Curiosità mista gelosia mi resero insopportabile il soggiorno. Dovetti farmi ospitare da mia cugina e da suo marito. Gente simpatica, per carità, ma il loro divano mi uccideva, giorno dopo giorno, partendo dalla metà esatta della schiena.
Ma non solo. Ovviamente la notizia si sparse per la rete infinita di parenti, tanto che la scusa della fidanzata mi costò addirittura una chiamata da parte di mio padre conclusasi con: -adesso è l’ora di mettere la testa a posto-. Come se ciò non bastasse si era costituito un comitato di zie con l’obiettivo di decidere quale fosse la fortunata. A detta di mia cugina, le grandi sagge si riunivano ogni mercoledì pomeriggio davanti ad un caffè. Si iniziava con il nome di qualche figlia di conoscenti loro per spostarsi in seguito sulle figlie dei conoscenti dei conoscenti. Finiti i nomi iniziarono ad avviare un’attività investigativa. Chiesero a chiunque potesse lontanamente conoscermi, se mi avessero mai visto con una ragazza o simili.




Foto (elle_effe/flickr)


Continua martedì 14 aprile 2009

martedì 31 marzo 2009

Il capotreno 2/2


Foto (Sigmah/flickr)


... segue da martedì 24 marzo 2009

La vedo passare nel corridoio. E’ solo un ombra ma so che è lei. E’ andata in direzione della testa. Mi alzo di scatto e le corro dietro. Nel buio noto che porta una felpa con un cappuccio che le va a coprire la testa.
La seguo. Passa da un vagone all’altro senza perdere terreno. Io trovo le porte già aperte dal suo passaggio e per questo la credo più vicina. Quasi raggiunta. No. E’ sempre alla stessa distanza. Sta per arrivare al primo vagone, di prima classe. Anche qui le luci sono spente. Ho fatto un buon lavoro: tutto il treno è al buio.
Rallento fino a camminare. So che non mi può scappare. Sono all’altezza del primo scompartimento dell’ultimo vagone. La vedo proseguire fino a svoltare alla fine del corridoio. Non si butterà da un treno in corsa. Posso proseguire con calma e riflettere.
Ma niente mi sembra sufficiente a spiegare. I pensieri si accavallano e saltano senza incontrarsi, ognuno per la propria strada indipendenti. Ripenso a tutto il tragitto, a tutte le fermate nelle varie città. Quando può essere salita? Quando il treno apriva le porte io ero lì, a pregare i passeggeri per farli salire sul mio treno. A Firenze? Impossibile. Ho girato più e più volte il treno passando per ogni scompartimento e ogni bagno. Aprendo le porte dove queste erano chiuse. Richiudendole dove erano aperte… così… per sfizio.
Inizio a rendermi conto della possibilità che io sia impazzito ed ora sì che forse ho paura. Mancanza di logica nei pensieri e visioni sono due indizi abbastanza palesi. Mi chiedo così se una volta di fronte a lei avrò superato il punto del non ritorno, se i paradossi si trasformeranno in realtà e tutta la mia vita in un ricordo di altrui proprietà. “Prima di perdere il senno pensa che faceva il capotreno”. “Io l’ho conosciuto, un simpatico ragazzo, anche se già si vedeva che aveva qualcosa di strano”. “Mi dispiace per lui, io l’ho amato sul serio, ma era troppo orgoglioso per fermarsi a capire”. Orgoglioso io? No, si sbaglia.
Mancano pochi passi e perderò la mia vita, il controllo del mio futuro. Mi troveranno a fine corsa rannicchiato in un angolo con i capelli strappati e gli occhi fissi verso un punto, dove penserò essere le labbra di lei.

Se la mente comunica paura a tutti i nervi, paralizzati ed insensibili alle altre sensazioni, il corpo continua a muoversi verso la fine del vagone, gira l’angolo e mette i miei occhi di fronte a quella figura, di spalle, che guarda all’infuori le luci che scorrono. Bloccato, la vedo di fronte a me. Non mi muovo e non parlo. Aspetto che si giri. Sento gli occhi lacrimare per la paura. I nervi si risvegliano al bagnato delle lacrime che scorrono sulle guance, e le sentono cadere sui piedi nudi.
Girati forza. Mostrami il tuo viso. Guardami negli occhi e dimmi che sei reale. Ma non è così. Non si è ancora voltata del tutto e già comprendo di essere alla fine del viaggio. Finiscono tutti i viaggi della mia vita nel vuoto al di sotto di quel cappuccio. Gli occhi sono testimoni della mia follia, anche se la mente continua ad insistere sperando di trovare i lineamenti di lei. La morte… forse la morte sarebbe meglio della follia che mi aspetta.
La morte infatti me la immagino con una faccia, triste, di donna. Complice del destino ma riluttante all’idea di aiutarlo. Rassegnata per il proprio compito mi guarderebbe con occhi secchi per il troppo pianto, ma tristi e quasi bassi. Mi prenderebbe la mano e mi porterebbe via, allontanando l’anima dal corpo pesante e nudo.
La pazzia, invece, la sto osservando ora. E’ senza volto ne consistenza. Non guarda ma viene guardata. Vedi attraverso il suo viso il fondo della tua vita: vuoto come gli scompartimenti di questo treno. Solo come il suo capotreno che, guarda caso, sono sempre io.
Lei, chiunque sia, si muove. Temo per un attimo che mi voglia strappare il cuore e quasi lo spero: un ultimo atto di pietà prima di farmi impazzire del tutto. Non batterà più, così non soffrirò quando verrò isolato nell’angolo della società, proprio di fronte ai senza tetto, alle prostitute malmenate, ai vecchi pronti al grande salto.
Invece no. Non mi sfiora neanche con le dita che vedo affusolate e giovani. Poggia con delicatezza la mano sulla leva del freno d’emergenza e con energia la tira di botto. Tutto nel treno si butta in avanti. L’aria, i rumori, le urla e l’intero mio corpo che lascia sbattere la testa contro il vetro della porta al di là della quale vi è la locomotiva. Cado a terra subito dopo lottando con i sensi affinché non li perda. Sento le macchine ferme, silenziose. Tutto è fermo e silenzioso per parecchi minuti: due, tre, cinque, finché il silenzio non viene interrotto da un treno che ci passa a tutta velocità a fianco, spostando l'aria e l’intero vagone dove sono steso.
Esausto perdo i sensi.

Il capotreno dell’intercity 9450 ha salvato i suoi passeggeri e il macchinista da una catastrofe ormai certa. Vi sono infatti dei lavori, in un determinato tratto del percorso dell’intercity, che obbligano i treni ad alternarsi su un unico binario. Il 9450 proseguiva a tutta velocità, invisibile agli occhi elettronici che, coincidenza o presa in giro del destino, avevano smesso di funzionare. La tragedia era annunciata, se non fosse stato per il freno di emergenza azionato dal capotreno di quel treno fantasma.
I passeggeri hanno raccontato di come il futuro eroe secondo loro sospettasse qualcosa già un’oretta prima dello scampato pericolo. Girava in continuazione per tutto il treno senza chiedere i biglietti, ma cercando un qualcosa trai posti a sedere. In seguito la luce è improvvisamente mancata in tutto il treno, e il nostro strano eroe, il capotreno, è stato sentito imprecare, forse i suoi sospetti trovavano conferma in quell’improvviso black-out. Lo hanno visto sdraiarsi a sentire il rumore dei binari, dicono, e poi sedersi in uno scompartimento a pensare, a piedi nudi. Poi si è alzato per correre verso la testa del treno. Pochi minuti dopo una forte frenata ha salvato tutti.
Come di dovere si è aperta un’inchiesta e gli inquirenti non vedono l’ora di interrogare il capotreno per capire come abbia fatto a prevedere ed evitare la tragedia. C’è già chi parla di preveggenza e chi di sesto e settimo senso, ma le risposte le potremo avere solo dal capotreno stesso, una volta che si sarà ripreso dal lieve shock in cui è stato trovato.

I medici dicono che si riprenderà presto, ma costoro non sanno che mi sono già ripreso e che mi sto allontanando dall’ospedale attraversando porte e corridoi.
Voglio sparire e lasciare tutte le domande di questa storia senza risposta alcuna, per tingere con un po’ di mistero tutto questo paradosso. Andrò verso est, verso l’India. Lì i treni sono differenti da qui: sono talmente affollati che alcuni passeggeri devono sedersi sul tetto durante il tragitto. Ricomincio a viaggiare.




















Foto (_Jer_/flickr)



Fine

martedì 24 marzo 2009

Il capotreno 1/2

Foto (Train Spotting/flickr)


Paradossale. Se fossi uno scrittore mi piacerebbe scrivere un libro sui fatti più rilevanti della mia vita, per rendervi partecipi di tante piccole coincidenze, descrivervele, farvi entrare nel mio mondo: paradossale appunto.
Non riesco a capire come. Forse un dio in cui non credo mi mette via via di fronte a prove inattese, che puntualmente fallisco, e per questo me ne manda altre. Persone e fatti girano intorno a me in una maniera che a leggerla a posteriori non trova discontinuità. Non vi sono salti logici fra le situazioni che mi sono trovato ad affrontare nella mia pur sempre breve esistenza. Così breve che non mi stupirei nel vederla finire tra pochi chilometri, con il mio corpo straziato riverso sui binari, tra cocci di lamiere che si impregnano del mio sangue.
Succede sempre inaspettatamente di morire, penso. Forse lo puoi leggere nei riflessi dei finestrini, quando la tua immagine si estranea della percezione che sempre hai avuto di te. Forse è quello il momento in cui l’anima si prepara per andare altrove. L’immaterialità si congeda dal tuo lato materiale. I pensieri scorrono dimenticando il corpo stanco: proprio quello seduto sui sedili dell’intercity 9450, mentre gli occhi si fissano contemplando il vuoto. Forse oggi sto per morire. Ma sicuramente non sarà colpa di questo treno. Dio, tu che non esisti, fa che il tuo sguardo onnipresente non debba assistere alla fine del mio viaggio tra queste lamiere. Fa che l’ultimo mio respiro avvenga durante un altro tragitto, verso mete lontane, non verso il solito ritorno a casa.
Non qui ma anche adesso va bene. Non trovo motivi in questo passaggio della mia vita per convincermi che valga la pena aver paura. Non cerco il capolinea, ma mi sento pronto all’arrivo.
Mi alzo dal posto finestrino decidendo di fare un giro per il treno: sento che presto scoprirò la ragione di questo nuovo paradosso cui mi trovo di fronte.

Ogni giorno, da Firenze verso Milano, distraendo il silenzio della notte, un treno viaggia a tutta velocità: vuoto. Unico passeggero di questo treno, il mio sguardo cammina attraverso gli scompartimenti desolati in direzione contraria rispetto a quella di marcia. Ad aspettarmi ogni quattro passi vi è sempre la mia immagine riflessa sui vetri dei finestrini. Sono gli schermi che separano chi osserva da chi viene osservato: le luci nelle case dove le famiglie siedono a cena si distraggono a guardare malinconicamente le luci dei vagoni. Io mi limito a salutare quei lontani punti luminosi con un lieve sorriso indifferente, ironico: loro non sanno che il treno trasporta un unico viaggiatore stasera.
Per riempire il tempo di questa mia solitudine vorrei cedere alla tentazione di ripercorrere tutti i viaggi della mia vita: ripensare alle lunghe chiacchierate con persone appena conosciute. Agli sguardi di ragazze e donne cui vorrei strappare una storia, una sola. E allora mi avvicino ad una di loro e le chiedo il biglietto. La interrogo su dove si sta recando, il perché. Da come risponde potrò capire. Risposte stentate: ringrazio e proseguo il percorso. Sorrisi di reciproca curiosità: inizia un viaggio nel viaggio.
Mi parla del suo presente: dei suoi studi e dell’amore per la vita. Di ciò che crede e pensa. Dei suoi timori. Sorride molto e si ferma quando è indecisa. Mi mette quasi a disagio, ma entrambi vogliamo proseguire questo tragitto, fino alla prossima stazione: la sua. Io proseguo fino al capolinea.
Così al momento dei saluti le stringo la mano ed in silenzio la vedo scendere. Un silenzio pesante. Un silenzio che non so spezzare.
Come una maledizione o forse una semplice coincidenza da allora questo treno viaggia vuoto, come se nessuno più volesse condividere con me un tragitto della propria vita.
Tutti di fretta. Avranno preferito muoversi in aereo. Evitano di passare ore a contemplare se stessi. Evitano di dover stare troppo tempo con altre vite, altri problemi: di altra gente ma pur sempre problemi. Così preferiscono la macchina. Percorrono centinaia di chilometri non facendo altro che guardare delle linee bianche alternarsi a momenti di buio. E canticchiano qualche canzone alla radio. Scelgono di essere i conducenti della propria vita dimenticandosi dei piaceri delle vite altrui. Non ci pensano. Viaggiano e viaggiano. Se devono morire preferiscono farlo per un proprio errore, non per una coincidenza del destino. Per un triste scherzo di un dio inutile.
E così adesso mi ritrovo da solo a passeggiare in bilico trai corridoi. All’altezza del vagone numero 6 il treno incrocia un’autostrada. Fiume di fari, vento di anime. Un attimo prima rido, pochi secondi dopo lo sconforto mi invade per l’impossibilità di incrociarmi con altri viaggi: con lentezza e regolarità vengo ucciso dalla noia.

Arrivato alla fine del vagone, tra le due porte di uscita, mi accendo una sigaretta, nonostante mi senta salire un po’ di nausea già dal primo tiro. Ma continuo. Uno dopo l’altro, e le forze mi abbandonano, desidero tornare a sedermi. Spengo la sigaretta con l’acqua del bagno e la butto nel cestino. Mi avvio verso il terzo scompartimento, quello simpatico. Mentre il primo infatti ostenta la fortuna di essere primo e il secondo sfrutta la gloria del primo, il terzo stringe la sua medaglia di bronzo fiero di aver vinto la gloria senza il successo. Umile lui, non fesso.
Una volta entrato mi abbandono su tutta una fila di sedili, togliendomi scarpe e calzini con lo sguardo rivolto verso l’esterno. Sul finestrino, non ci sono più io, ma il resto dello scompartimento riflesso in maniera tale da avere la prospettiva di un bambino, stupito, con lo sguardo rivolto verso l’esterno.
La visuale mi annoia dopo poco. Provo a spegnere la luce per tentare di scrutare il panorama al di là del vetro: cerco atmosfera. Non basta, dal corridoio di luce ne passa ancora e l’effetto specchiato del vetro non svanisce del tutto neanche chiudendo le tende. Mi alzo in piedi dimenticandomi apposta di calzare le scarpe e mi avvio verso la centralina del vagone.
Mi fermo con i piedi uno affianco all’altro. Sento le vibrazioni dell’entità meccanica che si muove sotto di me. Entro in contatto coi motori, coi binari, sto cavalcando l’intero treno come un guerriero di boschi post-nucleari. Stringo l’arco nelle mani, mi guardo intorno: punto. Indice e pollice lavorano di precisione sulla coda della freccia. Mollo la presa e via. Sul vetro della porta interna del vagone ho il riscontro di non aver fallito il bersaglio. La mia gomma già masticata è lì appiccicata giusto nel punto di incontro delle diagonali. Mi avvicino con lenta baldanza. Osservo da vicino il corpo del reato. Una piccola pallina di colore bianco rimane straordinariamente attaccata al vetro nonostante le vibrazioni. Apro la porta con delicatezza, non sia mai la magia dovesse svanire. Osservo lo stesso oggetto da una diversa prospettiva, dall’altra parte del vetro. La porzione di superficie a contatto con il vetro disegna un cerchio sul vetro stesso. La pallina non è più una sfera perfetta: nell’incontro ha mutato forma. Ha sacrificato la propria forma per poter restare attaccata al vetro.
Mi volto per ritrovarmi quasi stupito di fronte alla centralina e ricordo la mia missione. Osservo per pura curiosità il nero raccolto dalle piante dei piedi prima di togliere la luce a tutto il vagone. Poi è finalmente buio.
Con gli occhi non ancora abituati all’assenza di luci forti, mi avvio a piccoli passi verso il simpatico terzo scompartimento dove ho lasciato le scarpe, i calzini e la borsa da capotreno, con dentro il libro che sto leggendo in questi giorni, ma del quale non mi incuriosisce per niente la trama. Apro la porta-bersaglio, faccio un passo e sento qualcosa di umido e appiccicoso tra il secondo e il terzo dito del piede. Bestemmio ad alta voce pensando alla fatica che dovrò impiegare per togliere la gomma da masticare da quel posto del mio piede. Ma l’incazzatura passa dopo pochi secondi. La pallina imperfetta ha deciso di cambiare nuovamente forma, prendendo il calco delle dita del piede. Perché?
I passi successivi sono zoppicanti, nella speranza che non appoggiando il piede al suolo mi sarà poi più facile staccare la cicca. Arrivo allo scompartimento. Attraverso il buio noto l’ombra del mio borsello. Non entro subito, restando in ammirazione della notte. Mi giro di centottanta gradi ad osservare il panorama dal finestrino del corridoio. Il vetro non separa più il dentro dal fuori, il fuori è entrato ed ha invaso tutto il vagone. Anche il rumore delle ruote sui binari sembra essersi attenuato per accogliere la notte. Mi giro e rigiro. Guardo intorno. Bellissimo. La desolazione del vagone non mi è più nemica, ma complice e compagna. Io e il nulla restiamo in contemplazione. Mi siedo direttamente lì dove sono, anzi, decido di sdraiare il mio corpo sul pavimento, con il viso verso l’alto e le mani raccolte sotto la nuca.
Guardo dal buio del pavimento la luce che passa sopra di me. Mi nascondo per non farmi notare, per osservarla indisturbato. La luna, che io ricordavo illuminata nel cielo alla mia sinistra, al di là dello scompartimento, ora sembra aver abbracciato tutto il treno. Forse lo sta sollevando per portarlo verso l’alto, ma sotto di me sento ancora la presenza dei binari. Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi rialzo e mi siedo sul divanetto. Entro a far parte delle ombre che hanno invaso il treno. Sono presente tra le case e le loro luci in lontananza, tra le staccionate che si percepiscono appena con gli occhi, ma che sono piantate a pochi metri dai binari. Tutto scorre intorno a me ma io mi accorgo di restare fermo.


Foto (lallatorino/flickr)


Continua martedì 31 marzo 2009

martedì 17 marzo 2009

La trattoria degli dei e degli ideali 2/2
























Foto (Quarat RMX/flickr)


... segue da martedì 24 febbraio 2009


E da quel ricordo si arriva ad oggi. Di anni ne sono passati molti e io mi avvio ad essere sempre più vecchio. Me ne sto seduto qui in disparte, in un angolo buio del ristorante, perché nonostante il nome non sia cambiato, di un ristorante ora si tratta. Ho un piccolo tavolo davanti a me con una sedia sempre vuota dall’altra parte. Osservo la gente che viene a mangiare ma non mi siedo più con loro. Osservo i giovani camerieri che hanno preso il posto che da mio padre passò a me e da me a loro, ma non ne ammiro l’eleganza. Sono ormai disilluso poiché è da molto tempo che qui non entra più nessuno a cercare il proprio destino. Sono spavaldi i nuovi clienti: combattono il tempo con le parole e non si fermano ad ascoltare. Li vedo con facce serie e sicure, mai titubanti di fronte ad una tavola vuota. Parlano e parlano e, quel che è peggio, i discorsi sembrano non essere cambiati da quando in questo posto entravano solo futuri dei.
Ma una sera, dal mio angolo buio, vidi entrare un giovane ragazzo. Camminava con un lieve dondolio ad ogni passo, guardando e osservando inutili particolari intorno a sé. Cercava un lavoro, e mio figlio, il quale si occupa ormai di tutto ciò che riguarda il “ristorante”, lo prese a lavorare senza fare troppe domande. Oggi si viene raccomandati pure per fare il cameriere. Iniziarono strani giorni da quella sera. Passavo il tempo ad osservare il giovane, come si muoveva tra i clienti. Non era elegante nemmeno lui nello svolgere il suo lavoro, ma spesso sembrava ascoltare con interesse i discorsi dei clienti, quello stesso interesse che ponevo anch’io quando, da piccolo, mi sedevo a tavola con i grandi.
Con i giorni e le settimane lo vidi sempre più affascinato da quella gente che mangiava senza un perché. I loro discorsi entravano nella sua piccola testolina di giovane e riempivano ogni spazio disponibile e, a giudicare da quell’aria sperduta che si portava in giro camminando tra i tavoli, di spazio vuoto ce n’era molto. Forse fu per questo che dal mio angolo buio, osservando, mi affezionai a quel ragazzo stupidotto prendendo a cuore il suo destino così fertile agli ideali. Picchiai con delicatezza il coltello contro il bicchiere per attirare la sua attenzione, e quando si girò a guardare da quale parte venisse quel richiamo, gli indicai il posto vuoto davanti a me per potersi sedere.

Erano ormai quasi due mesi che lavoravo in quello strano ristorante. Tutte le giornate e tutte le sere mi presentavo puntuale davanti alla porta di legno ed entravo. La sera uscendo notavo sempre uno stesso gruppo di ragazzi che si riunivano in fondo alla via. All’inizio li guardavo con invidia, per il loro sembrare così spensierati e felici nel passare le sere in quel piccolo vicolo, ma poi col tempo passai a considerarli degli sfaccendati cui la vita, dandogli tutto, nulla gli abbia mai insegnato. Io, al contrario, dentro apprendevo molte cose. Passando trai tavoli non mi lasciavo mai perdere l’occasione per spiare i miei ospiti, ascoltarli e carpire il senso delle loro vite. Grazie alle loro soste per approfittare di un buon pasto scelto dal ricco menù, conoscevo il riassunto del mondo al di fuori. Viaggiavo con loro nei posti da cui erano appena tornati oppure mi intromettevo nei loro discorsi senza aprire bocca. Sempre però rimanevo affascinato dalla certezza che mostravano nel percepire il mondo e per questo mi riusciva difficile confutare i loro ideali come invece avevo fatto con mio padre quell’ultima volta.
Ciò che rendeva veramente strano quel posto, oltre a delle vecchie foto appese, raffiguranti gente sconosciuta, era un anziano signore che mai ho visto in un luogo diverso da dove soleva sedere. Con le braccia poggiate sull’addome ed una gobba appena accennata, sembrava aspettare la visita di qualcuno da un momento all’altro: prova ne era la sedia vuota lasciata all’altra estremità del tavolo. Così come lui non lo si poteva mai vedere se non seduto al suo posto, anche la sedia non poteva mai essere utilizzata da alcuna anima viva. Per questo potrei dar ragione a suo figlio quando dice che il vecchio aspetta che lì si sieda la morte.
Ma non fu la morte a sedervi, almeno che non sia io la morte stessa. Un giorno infatti mi capitò di essere chiamato da quell’anziano signore ad occupare il posto davanti a lui. Stavo preparando i tavoli per l’imminente apertura quando sentii il rumore che l’acciaio fa contro il cristallo, lo stesso che si sente nei film quando si vuole richiamare l’attenzione in previsione di un discorso: solitamente l’occasione è un matrimonio. Mi guardai in giro per vedere se qualcun altro l’avesse notato e incappai nello sguardo del vecchio che, sollevando quella sua pesantissima mano, mi indicò la sedia vuota davanti a lui.
Mi avvicinai con calma ma con enorme curiosità. Che cosa voleva mai quell’uomo da me? Forse rimproverarmi per qualcosa di fatto male: non credo, penso di essere uno dei migliori là dentro nonostante la poca esperienza.
Dalla sua espressione saggia, data dall’immobilità del suo sguardo, mi chiesi se non fosse lui il destino che stavo cercando. Considerandola una possibilità neanche troppo remota iniziai a pensare bene alla struttura delle domande che gli avrei fatto e al giusto ordine con cui porle. Come un saggio di una foresta mi avrebbe accolto ed illuminato sul destino degli abitanti di questa città, e del paesello soprattutto. Semmai la sua rivelazione avrebbe risolto il problema di tutti gli esseri umani, ed io mi avviavo ad essere il prescelto.
Mi sedetti infine, ed aspettai di sentire la voce del vecchio saggio.

“Ci fu un tempo qui in cui passavano solo cavalieri per abbeverarsi e mangiare alla mia tavola. Le loro soste mai erano prive di parole corrette. Mai si abbandonavano al silenzio una volta che i loro stomachi fossero pieni di un caldo pasto e di un buon vino. Io li vedevo in quell’atto ed ascoltavo con umile attenzione le loro storie. Erano storie di guerra, storie di coraggio, nato dalla forza dei loro ideali. Gli uomini sconfiggono qualsiasi paura con gli ideali perché la paura più grande è la vita vuota data da una morte inutile.
“Quei cavalieri entravano sotto mentite spoglie, con baffi e barbe folte a nascondere la purezza della loro pelle. Sporchi e con vestiti stracciati per distogliere l’attenzione dai loro occhi, perché, devi sapere giovane stupidotto, che quei cavalieri altro non erano che dei. Dei scesi in terra per guidare dei fortunati uomini verso una degna morte, che concedesse loro l’ascesa verso il regno dell’immortalità.
“Ma adesso, ragazzo mio, non più questo suolo sarà calpestato da gente di cotanta grandezza e magnificenza, poiché di cavalieri così se ne incontrano con difficoltà e certo mai penseranno di passare in questo luogo. Ormai, da oasi di ristoro per dei e semidei, questi tavoli non son diventati altro che pezzi di legno senza vita, celati nella loro miseria da stupide tovaglie. Sui loro piani vi mangiano i figli di quegli uomini ma che a quegli uomini non assomigliano affatto. Parlano anche loro di guerre e di coraggio, ma senza cognizione di causa. Anche loro rivolgono agli ideali come punto di massima ispirazione, ma senza conoscerli. Si credono dei, ma sono servi di loro stessi.
“Tra le loro parole si intervallano solo morsi voraci alla carne servita loro nel piatto. Le loro dita non più di sangue proprio sono macchiate, ma di sangue di povere vittime sacrificate al loro sentirsi immortali. Mangiano e non si saziano. Mangiano e ingrassano senza mai scoppiare. Se resti qui ragazzo mangeranno anche te, perché non anno pietà. Ti leveranno l’anima come hanno fatto con tutto ciò che li circonda, con immagini di ideali destinate a cadere al primo soffio di una grande tempesta. Fuggi. Scappa. Come te lo devo dire, stupido fanciullo, vai via prima di non ricordarti nulla di ciò che ti ha insegnato tuo padre”

Il racconto funzionò. Il ragazzino si alzò senza scostare lo sguardo dai miei occhi e corse verso la porta di legno. Spero di non averlo spaventato troppo in quella occasione: non pensavo che le parole di un vecchio, seppur arricchite di tanti eufemismi, potessero avere un effetto così grande. Il ricorso alla mitologia di sicuro mi ha dato un sostanzioso aiuto. Cavalieri, guerre, dei: ancora adesso mi sorprendo da solo di tanta fantasia, non è affatto facile alla mia età. Ma il colpo di grazia penso di averglielo dato menzionando suo padre: lo avevo letto negli occhi il suo rispetto per il padre, così simile al mio.

Uscii correndo, ma correndo felice. Le parole del vecchio si erano rivelate più che profetiche: erano le risposte che cercavo. Nulla più mi perseguitava. Ero più leggero che all’andata.
Arrivai però solo all’angolo in fondo al vicolo perché lì mi fermò un qualcosa od un qualcuno travolgendomi. Caddi a terra e subito riaprii gli occhi per conoscere la causa di quella interruzione. Misi a fuoco non senza un lieve astio per colui o per quel qualcosa che aveva fermato la mia corsa verso la libertà. Al posto della strada che incrocia il vicolo vidi in effetti un piccolo furgoncino, con alla guida un ragazzo che mi guardava con un espressione abbastanza sconcertata più che spaventata. Lo sportello posteriore si aprii per lasciare affacciare una graziosa ragazza che con un cenno della mano seguito da alcune parole mi invitò a salire. Mi sollevai ed entrai con fatica nel furgone. Dentro era pieno di altri ragazzi ancora mentre una cartina dell’Europa sulla quale mi ero appena seduto, mi fece capire che la corsa non era interrotta, ma stava giusto per cominciare.























Foto (Eric Perrone/flickr)



Fine