martedì 24 marzo 2009

Il capotreno 1/2

Foto (Train Spotting/flickr)


Paradossale. Se fossi uno scrittore mi piacerebbe scrivere un libro sui fatti più rilevanti della mia vita, per rendervi partecipi di tante piccole coincidenze, descrivervele, farvi entrare nel mio mondo: paradossale appunto.
Non riesco a capire come. Forse un dio in cui non credo mi mette via via di fronte a prove inattese, che puntualmente fallisco, e per questo me ne manda altre. Persone e fatti girano intorno a me in una maniera che a leggerla a posteriori non trova discontinuità. Non vi sono salti logici fra le situazioni che mi sono trovato ad affrontare nella mia pur sempre breve esistenza. Così breve che non mi stupirei nel vederla finire tra pochi chilometri, con il mio corpo straziato riverso sui binari, tra cocci di lamiere che si impregnano del mio sangue.
Succede sempre inaspettatamente di morire, penso. Forse lo puoi leggere nei riflessi dei finestrini, quando la tua immagine si estranea della percezione che sempre hai avuto di te. Forse è quello il momento in cui l’anima si prepara per andare altrove. L’immaterialità si congeda dal tuo lato materiale. I pensieri scorrono dimenticando il corpo stanco: proprio quello seduto sui sedili dell’intercity 9450, mentre gli occhi si fissano contemplando il vuoto. Forse oggi sto per morire. Ma sicuramente non sarà colpa di questo treno. Dio, tu che non esisti, fa che il tuo sguardo onnipresente non debba assistere alla fine del mio viaggio tra queste lamiere. Fa che l’ultimo mio respiro avvenga durante un altro tragitto, verso mete lontane, non verso il solito ritorno a casa.
Non qui ma anche adesso va bene. Non trovo motivi in questo passaggio della mia vita per convincermi che valga la pena aver paura. Non cerco il capolinea, ma mi sento pronto all’arrivo.
Mi alzo dal posto finestrino decidendo di fare un giro per il treno: sento che presto scoprirò la ragione di questo nuovo paradosso cui mi trovo di fronte.

Ogni giorno, da Firenze verso Milano, distraendo il silenzio della notte, un treno viaggia a tutta velocità: vuoto. Unico passeggero di questo treno, il mio sguardo cammina attraverso gli scompartimenti desolati in direzione contraria rispetto a quella di marcia. Ad aspettarmi ogni quattro passi vi è sempre la mia immagine riflessa sui vetri dei finestrini. Sono gli schermi che separano chi osserva da chi viene osservato: le luci nelle case dove le famiglie siedono a cena si distraggono a guardare malinconicamente le luci dei vagoni. Io mi limito a salutare quei lontani punti luminosi con un lieve sorriso indifferente, ironico: loro non sanno che il treno trasporta un unico viaggiatore stasera.
Per riempire il tempo di questa mia solitudine vorrei cedere alla tentazione di ripercorrere tutti i viaggi della mia vita: ripensare alle lunghe chiacchierate con persone appena conosciute. Agli sguardi di ragazze e donne cui vorrei strappare una storia, una sola. E allora mi avvicino ad una di loro e le chiedo il biglietto. La interrogo su dove si sta recando, il perché. Da come risponde potrò capire. Risposte stentate: ringrazio e proseguo il percorso. Sorrisi di reciproca curiosità: inizia un viaggio nel viaggio.
Mi parla del suo presente: dei suoi studi e dell’amore per la vita. Di ciò che crede e pensa. Dei suoi timori. Sorride molto e si ferma quando è indecisa. Mi mette quasi a disagio, ma entrambi vogliamo proseguire questo tragitto, fino alla prossima stazione: la sua. Io proseguo fino al capolinea.
Così al momento dei saluti le stringo la mano ed in silenzio la vedo scendere. Un silenzio pesante. Un silenzio che non so spezzare.
Come una maledizione o forse una semplice coincidenza da allora questo treno viaggia vuoto, come se nessuno più volesse condividere con me un tragitto della propria vita.
Tutti di fretta. Avranno preferito muoversi in aereo. Evitano di passare ore a contemplare se stessi. Evitano di dover stare troppo tempo con altre vite, altri problemi: di altra gente ma pur sempre problemi. Così preferiscono la macchina. Percorrono centinaia di chilometri non facendo altro che guardare delle linee bianche alternarsi a momenti di buio. E canticchiano qualche canzone alla radio. Scelgono di essere i conducenti della propria vita dimenticandosi dei piaceri delle vite altrui. Non ci pensano. Viaggiano e viaggiano. Se devono morire preferiscono farlo per un proprio errore, non per una coincidenza del destino. Per un triste scherzo di un dio inutile.
E così adesso mi ritrovo da solo a passeggiare in bilico trai corridoi. All’altezza del vagone numero 6 il treno incrocia un’autostrada. Fiume di fari, vento di anime. Un attimo prima rido, pochi secondi dopo lo sconforto mi invade per l’impossibilità di incrociarmi con altri viaggi: con lentezza e regolarità vengo ucciso dalla noia.

Arrivato alla fine del vagone, tra le due porte di uscita, mi accendo una sigaretta, nonostante mi senta salire un po’ di nausea già dal primo tiro. Ma continuo. Uno dopo l’altro, e le forze mi abbandonano, desidero tornare a sedermi. Spengo la sigaretta con l’acqua del bagno e la butto nel cestino. Mi avvio verso il terzo scompartimento, quello simpatico. Mentre il primo infatti ostenta la fortuna di essere primo e il secondo sfrutta la gloria del primo, il terzo stringe la sua medaglia di bronzo fiero di aver vinto la gloria senza il successo. Umile lui, non fesso.
Una volta entrato mi abbandono su tutta una fila di sedili, togliendomi scarpe e calzini con lo sguardo rivolto verso l’esterno. Sul finestrino, non ci sono più io, ma il resto dello scompartimento riflesso in maniera tale da avere la prospettiva di un bambino, stupito, con lo sguardo rivolto verso l’esterno.
La visuale mi annoia dopo poco. Provo a spegnere la luce per tentare di scrutare il panorama al di là del vetro: cerco atmosfera. Non basta, dal corridoio di luce ne passa ancora e l’effetto specchiato del vetro non svanisce del tutto neanche chiudendo le tende. Mi alzo in piedi dimenticandomi apposta di calzare le scarpe e mi avvio verso la centralina del vagone.
Mi fermo con i piedi uno affianco all’altro. Sento le vibrazioni dell’entità meccanica che si muove sotto di me. Entro in contatto coi motori, coi binari, sto cavalcando l’intero treno come un guerriero di boschi post-nucleari. Stringo l’arco nelle mani, mi guardo intorno: punto. Indice e pollice lavorano di precisione sulla coda della freccia. Mollo la presa e via. Sul vetro della porta interna del vagone ho il riscontro di non aver fallito il bersaglio. La mia gomma già masticata è lì appiccicata giusto nel punto di incontro delle diagonali. Mi avvicino con lenta baldanza. Osservo da vicino il corpo del reato. Una piccola pallina di colore bianco rimane straordinariamente attaccata al vetro nonostante le vibrazioni. Apro la porta con delicatezza, non sia mai la magia dovesse svanire. Osservo lo stesso oggetto da una diversa prospettiva, dall’altra parte del vetro. La porzione di superficie a contatto con il vetro disegna un cerchio sul vetro stesso. La pallina non è più una sfera perfetta: nell’incontro ha mutato forma. Ha sacrificato la propria forma per poter restare attaccata al vetro.
Mi volto per ritrovarmi quasi stupito di fronte alla centralina e ricordo la mia missione. Osservo per pura curiosità il nero raccolto dalle piante dei piedi prima di togliere la luce a tutto il vagone. Poi è finalmente buio.
Con gli occhi non ancora abituati all’assenza di luci forti, mi avvio a piccoli passi verso il simpatico terzo scompartimento dove ho lasciato le scarpe, i calzini e la borsa da capotreno, con dentro il libro che sto leggendo in questi giorni, ma del quale non mi incuriosisce per niente la trama. Apro la porta-bersaglio, faccio un passo e sento qualcosa di umido e appiccicoso tra il secondo e il terzo dito del piede. Bestemmio ad alta voce pensando alla fatica che dovrò impiegare per togliere la gomma da masticare da quel posto del mio piede. Ma l’incazzatura passa dopo pochi secondi. La pallina imperfetta ha deciso di cambiare nuovamente forma, prendendo il calco delle dita del piede. Perché?
I passi successivi sono zoppicanti, nella speranza che non appoggiando il piede al suolo mi sarà poi più facile staccare la cicca. Arrivo allo scompartimento. Attraverso il buio noto l’ombra del mio borsello. Non entro subito, restando in ammirazione della notte. Mi giro di centottanta gradi ad osservare il panorama dal finestrino del corridoio. Il vetro non separa più il dentro dal fuori, il fuori è entrato ed ha invaso tutto il vagone. Anche il rumore delle ruote sui binari sembra essersi attenuato per accogliere la notte. Mi giro e rigiro. Guardo intorno. Bellissimo. La desolazione del vagone non mi è più nemica, ma complice e compagna. Io e il nulla restiamo in contemplazione. Mi siedo direttamente lì dove sono, anzi, decido di sdraiare il mio corpo sul pavimento, con il viso verso l’alto e le mani raccolte sotto la nuca.
Guardo dal buio del pavimento la luce che passa sopra di me. Mi nascondo per non farmi notare, per osservarla indisturbato. La luna, che io ricordavo illuminata nel cielo alla mia sinistra, al di là dello scompartimento, ora sembra aver abbracciato tutto il treno. Forse lo sta sollevando per portarlo verso l’alto, ma sotto di me sento ancora la presenza dei binari. Chiudo gli occhi. Li riapro. Mi rialzo e mi siedo sul divanetto. Entro a far parte delle ombre che hanno invaso il treno. Sono presente tra le case e le loro luci in lontananza, tra le staccionate che si percepiscono appena con gli occhi, ma che sono piantate a pochi metri dai binari. Tutto scorre intorno a me ma io mi accorgo di restare fermo.


Foto (lallatorino/flickr)


Continua martedì 31 marzo 2009

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