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Foto (Eléanor/flickr)
Tutta una vita passata a nuotare, e mai avevo visto il mare. Prima di tutto mi presento. Io sono io. Forse però è meglio cercare di particolareggiare il mio personaggio. Diciamo che il mio io nuota. Sono un nuotatore. E sia chiaro, non un nuotatore qualsiasi, diciamo uno dei migliori. Quello che faccio nella vita è aspettare un fischio, uno sparo o qualsiasi altro segnale e buttarmi nell’acqua. Se mi piace quello che faccio? Penso sia un lavoro come un altro. Tutte le mattine i miei amici si svegliano ed escono per andare a lavorare. Io ogni giorno, per più volte, mi butto in piscina e nuoto. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria. Capriola, piastrella e via.
Una cosa che però digerisco veramente poco del mio lavoro c’è: il freddo. Lassù, su quel trampolino dal quale può risultare anche piacevole buttare lo sguardo verso un orizzonte piastrellato, non mi sento a mio agio, ben conscio che al segnale del via il mio corpo dovrà immergersi in quella distesa di acqua a temperatura sempre troppo bassa. Tocca poi al cervello convincerlo a lanciarsi: braccia avanti e... uno. Due, Tre. Quattro. Cinque. Aria.
Per i miei amici è diverso. Ogni mattina è il loro corpo il primo a svegliarsi, a buttarli nel freddo che regna fuori dalle lenzuola, dalle braccia delle loro compagne, o dei loro compagni. Alcuni mi raccontano che a volte anticipano la sveglia, la luce o i passi dei vicini del piano di sopra e aprono gli occhi. Stanchi di riposarsi si alzano. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. La tazza del cesso.
Tutta una vita passata a nuotare, e mai mi sono abituato al freddo dell’acqua. Lo senti attraversare la pelle. Una bracciata dopo l’altra per non pensarci. Ma non ci riesco mai. Il mio scopo è l’arrivo: quando cioè potrò uscire e riscaldarmi tra le braccia dell’accappatoio. Ogni volta so che se sarò il primo il caldo sarà più meritato. Come Luca, uno dei miei amici. Lui torna a casa sempre più stanco per credere che la sua recente sposa sia il dono più caloroso che la vita gli abbia potuto dare. L’accappatoio, la sposa novella: il traguardo. La cosa più bella. Certo gli altri hanno avuto più fortuna con i loro traguardi. Loro sono sempre i primi. O lo credono. Ma è giusto così. Io già quando sono secondo sento gli occhi dell’istruttore come una condanna, per non parlare di quelli del pubblico. Due per ogni presente. Sempre il doppio di quelle reali. Ma non succede spesso che non sia io il primo.
“E’ curioso! – mi disse una volta Paola – La tua vita non è definibile come la vita di uno sportivo. Non ti svegli mai in tempo. Per non parlare della tua voglia di uscire dalle coperte. Esci di casa passeggiando ad una velocità esasperante. Tanto non ti importa di chi ti aspetta!”. Che sguardo strano. I suoi occhi. Le sue labbra. Fredde. “Non ti curi del tuo corpo – ha continuato – tanto che è tre mesi che l’oculista ti cerca disperatamente. Non cerchi l’aria sana della campagna… non mi porti mai fuori da questa città e tu stesso ti allontani a fatica, se non per una gara. Ma soprattutto una cosa più delle altre è veramente paradossale: tutta una vita che nuoti e non hai mai visto il mare.” In effetti è vero: non ho mai visto il mare.
Queste le ultime parole di Viviana, Emilia, Lucia e Paola, appunto. Si ripetono così macchinalmente che ormai capisco il momento con qualche minuto di anticipo. Il mio segreto sono le labbra. Diventano fredde. In effetti se dovessi concentrarmi sugli occhi lo capirei addirittura in anticipo di giorni, settimane. Ma che cambierebbe se a quel punto, intuito il tranello, le portassi al mare? Raggiungerei un traguardo? Non penso, lo raggiungerebbero loro.
Non ci crederete mai ma nel mio lavoro l’elemento più importante è la linea nera. Sì, proprio quel segmento scuro che galleggia sul filo dell’acqua poco prima di tuffarti e che sprofonda una volta che hai raggiunto il freddo. Uno, è lì. Due, è lì, Tre, è lì. Quattro, è lì. Cinque, è lì. Aria, non c’è più: attimi di panico.
Quando arriva la “T” sai che è il momento della capriola, e devi aver appena superato il secondo cinque. Se non arrivi giusto perdi tempo e l’accappatoio si allontana: gli altri ti superano e apprezzeranno il suo calore prima di te. Modestamente è tutta una vita che nuoto e non mi è mai successo di arrivare alla “T” al momento sbagliato. Neanche da piccolo, alla piscina comunale, ho mai sbagliato un colpo. Sarà stato per questo che l’insegnante mi ha sempre permesso di essere il primo della fila. Il primo su sei, sette o otto marmocchi ad arrivare all’accappatoio alla fine dei tre quarti d’ora.
Un giorno, sempre alla piscina comunale, ero l’unico presente del mio corso. L’insegnante mi obbligò ad entrare ugualmente nell’acqua fredda e a fare almeno quaranta vasche prima di uscire e raggiungere l’accappatoio. Ricordo l’emozione che provai quando una volta in acqua notai che la linea nera era tutta per me. Trionfavo sopra di lei. Non ero obbligato a tenerla alla mia sinistra. Stava guidando solo me. Seguivo la mia strada. Ricordo che per un attimo dimenticai il freddo. Ma fu un attimo e presto ricominciai a fremere e nuotare con fretta nel tentativo di avvicinare il più possibile il grande momento, il ritorno al caldo.
E l’insegnante si accorse di questa mia fretta. Contò una per una le mie vasche e le cronometrò. Una volta fuori dall’acqua, al calduccio del mio accappatoio, si abbassò sulle ginocchia per cercare i miei occhi nascosti sotto il cappuccio e mi spiegò quello che sarebbe diventato il mio lavoro: tutti i pomeriggi in piscina a nuotare sotto la supervisione di un suo collega. In un'altra piscina. In un'altra corsia. In una corsia tutta per me. Quel giorno capii di essere diventato adulto.
Orgoglioso del mio primo traguardo pensai a come doveva cambiare la mia impostazione verso la vita e mi segnai a mente i punti essenziali: le cose da fare quando si diventa adulti. Primo: non aspettare più la propria madre in ritardo all’uscita della piscina (le prime volte furono ceffoni). Secondo: non farsi più preparare i pasti dai propri genitori. Terzo: non renderli partecipi delle proprie delusioni sentimentali. Quarto ed ultimo il più importante: mai e proprio mai, piangere.
Da quando sono diventato adulto i miei hanno pian piano smesso di litigare e l’inevitabile divorzio arrivò solo molti anni dopo: un successo per la mia strategia.
Tutta una vita passata a nuotare, e mai avevo visto il mare. Finché un giorno al mare ci arrivai.
Era acqua. Acqua che si muoveva veloce spinta da correnti lontane e vicine, antiche e recenti. Tanto antiche da non avere un inizio. Così recenti da non vedersi la fine. Ricordo come mi interrogai sul perché di quel movimento irregolare guardandolo dal piccolo molo di legno in quella strana baia del Vecchio Pescatore. Ricordo che mi chiesi se anche quell’acqua fosse fredda. Ricordo che mi chiesi se tra i sassi e la sabbia, in quel fondale che galleggiava sopra l’acqua, ci fosse la mia linea nera.
Raggiunsi la conclusione che la mia linea nera non poteva esserci perché il fondale era molto sotto il pelo dell’acqua. Infatti piccoli pesciolini nuotavano tra quest’ultimo e un manto di alghe marine danzatrici tra la sabbia. Subito dopo mi interessai di un pezzetto di legno mosso dalle onde in un elegante gioco di marionette. La sua inerzia la paragonavo a quella dei pesciolini nel loro nuotare e quando il legnetto si allontanò troppo dalla mia visuale capii che la differenza con i pesciolini era trascurabile poiché tutti, inanimati o meno, subivano il fascino delle correnti.
Penso che a spingermi non fu il vento, ne l’equilibrio. A spingermi fu la linea nera. A un certo punto potei giurare di averla vista galleggiare tra le onde e il tocco della campana del paesino alle mie spalle fece muovere il mio corpo verso l’acqua: era il via.
Ma il mare, a parte per il sapore, non è molto differente dalla piscina. E’ freddo anch’esso. Me ne accorsi subito. Quando sentii i vestiti bagnati sul mio corpo. Fu allora che iniziai a nuotare. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria. Mi levai le scarpe. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria. Fu il turno di calzini, camicia e pantaloni. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria. Non mi fermai. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Aria.
La fretta che contraddistingue la mia nuotata svanì nel giro di una trentina di bracciate. Non c’era nessuno che potesse superarmi, ma soprattutto nessun caldo accappatoio ad aspettarmi. Non c’era ragione di tornare, pensai. Forse il caldo lo posso trovare più a largo, seguitai coi pensieri.
Ricordo che passò un’oretta prima del momento di pausa. Mi girai a pancia in su a riposare. Dopo aver nuotato come i pesciolini lungo una linea nera che attraversava il fondo del mare decisi di farmi trasportare dalle correnti, di accarezzarle e di beneficiare della loro energia come se fossi diventato il pezzetto di legno. Chiusi gli occhi e iniziai ad affondare.
Metro dopo metro mi sentivo sempre più vicino al centro della terra. Non scendevo diritto, ma scendevo. Aprii gli occhi quando ormai la luce del sole era solo un paio di raggi che coraggiosamente sfidavano il buio. Il caldo del sole si suicidava nel freddo dell’acqua. Anche lui aveva subito il fascino delle correnti. Vidi pesci attorno a me. Li osservai. Allungai le mani fino quasi ad accarezzarli. E, infine, li accarezzai. Ogni tipo di essere nuotante marino passò sotto i miei polpastrelli, facendomi sentire vivo dentro il freddo del mare. Anche gli squali riuscì ad accarezzare.
Scommetto che pochi di voi hanno accarezzato uno squalo. In verità non ci vuole tanto. Ma bisogna avere l’animo giusto. Non preparatevi con fionde, fucili d’acqua, armature metalliche: non servono. Immergetevi senza temerli ma anche senza volerli vincere. Sarebbe anche inutile. Sentitevi un corpo morto dentro l’acqua. Sentitevi l’acqua. Poi, quando il momento arriva e lo squalo si avvicina, chiudete gli occhi, perché alla visione dei suoi denti sporchi di assassinio la paura vincerebbe su tutto e lui la annuserebbe. A quel punto allungate le mani e sfiorate la sua pelle. Parlate alle sue pinne. Anche nel loro animo omicida gli squali hanno qualcosa da dire. Anche i loro occhi, quando pensano di non essere visti, portano un dolore dentro.
Dopo gli squali iniziai a interagire con altri pesci. Col pesce palla ci giocai. Col pesce pagliaccio ci scherzai. Con quello martello riparai le botte della mia vita. Con l’inchiostro della piovra scrissi parole d’amore che si dissolsero nell’acqua senza ferire nessuno compreso me.
Erano ore che viaggiavo in fondo al mare senza volere ossigeno quando mi adagiai sul fondo del mare. Non sono mai stato sul fondo di una piscina e mi ritrovai sul fondo del mare. Non ho mai visto da vicino la linea nera che seguo da tutta la vita e osservai piante subacquee salutarmi. Non ho mai capito come sia fatta la linea nera e capii come erano fatte queste piante, di vita.
Dovete sapere che ho sempre sofferto di vista. Non ci vedo bene. Per questo ignoro la vera struttura del fondo della piscina nonché della linea nera. Non ho mai detto ai miei genitori della mia cecità e loro mai si preoccuparono di mandarmi a fare una visita di controllo. Non ho la patente, quindi non faccio male a nessuno. Eppure, dal giorno in cui il mio allenatore si accorse di questo piccolo difetto ottico, mi sta tartassando affinché vada da un medico e ricorra a occhiali da vista e lenti a contatto per quando nuoto. Gente strana. Io resisto però. Non vedrò mai la linea nera con nitidezza, ma non mi interesso di ciò.
Continua martedì 17 febbraio 2009