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Foto (simone.onofri/flickr)
- Secondo te le ho guardato le tette?
- Come?
- La cameriera: hai notato se ho fissato le sue tette?
Così era iniziato il nostro ultimo incontro. Quasi un anno fa o poco più di un anno fa, non importa. Con lui capitava quasi per caso di incontrarsi. Non si faceva sentire per mesi e mesi e poi ad un certo punto, senza nessun motivo, una chiamata alle sette del mattino: - Facciamo colazione assieme? Solito bar… Sì proprio quello lì… Bravo: proprio quello in piazza. Tra mezzora lì. - E metteva giù.
In quell’ultima occasione arrivò in ritardo come al solito. Ricordo che quando entrò nel bar ero al telefono con un corriere. Primi problemi della giornata. Accomodato su una poltroncina del bar, cercavo di far comprendere con uno spagnolo troppo arrugginito il perché alle nove in punto dovevo avere un determinato pacco in ufficio, fosse crollato il mondo. – El mundo tenrà que esperar a caer!
Si avvicinò senza batter ciglio, con quel suo strano passo incostante, un po’ a scatti. Si sedette di fronte a me ed iniziò a sfogliare un giornale, chinandosi a leggere solo le notizie più brevi. Dopo poco arrivò la cameriera a prendere le ordinazioni. Ordinai un cappuccio mentre ero ancora al telefono. Lui fece lo stesso.
Due secondi dopo la chiamata finì e nascosi il cellulare nella tasca della giacca. Facemmo passare alcuni istanti che furono interrotti da quella strana domanda del mio grande amico Luca, il ginecologo:
- Secondo te le ho guardato le tette?
- Come?
- La cameriera: hai notato se ho fissato le sue tette?
- Della cameriera?
- Sì, della cameriera. Gliele ho fissate?
- Ma, non lo so! Cioè, non l’ho notato. Perché?
- Ho paura di non accorgermi di fissare i seni delle donne. Spesso quando parlo con una ragazza noto che ad un certo punto questa inizia a guardarsi il petto.
- Hai visto la cameriera fissarsi il petto?
- Sì. O almeno: credo.
- Forse controllavi fosse tutto a posto. È normale per te fissare i petti: è occhio clinico il tuo. - Cercai di portare un po’ di stupida ironia nella paradossale conversazione.
- Lasciamo stare - tagliò corto lui mentre vedeva avvicinarsi la cameriera con i cappuccini.
- Come và con Carmen? – iniziai con le solite domande di routine mentre la ragazza posava le tazze sul tavolo.
Luca aspettò che si allontanasse e rispose - Lucia vorrai dire? Carmen è storia di mesi fa.
- È uguale, come va la sfera sentimentale? Forse da questo potremmo capire perché guardi i seni delle cameriere.
- Non lo faccio intenzionalmente! E poi succedeva anche quando uscivo con Lucia.
- Uscivi?
- Sì. Uscivo.
- L’uso dell’imperfetto suggerisce che si tratta di una abitudine del passato.
- Non l’ho più chiamata da quando ha avuto la malaugurata idea di farsi visitare da me e non più da mio padre. – si girò di scatto come se avesse sentito un rumore brusco provenire dalla porta, e poi, come se nulla fosse, riprese - Le donne cambiano quando le conosci dal di dentro.
- Quando si dice che il lavoro influenza la vita sentimentale.
- Non è quello che pensi tu…
- Io non penso nulla, non riesco nemmeno a comprenderti. Smetti di uscire con una solo perché le hai guardato la vagina in studio e non a casa o in macchina. Tra tutte le scuse, questa è la peggiore.
- Vedi che non capisci! Dopo averle visitate io conosco i loro punti deboli: se hanno qualche infezione o se l’hanno mai avuta, qualsiasi traccia di malattia venerea, se tende a destra o a sinistra, se il loro ex era Rocco Siffredi o meno.
- Vedi che si finisce sempre a parlare di misure: classica invidia del pene. - sentii addosso uno sguardo di condanna dopo una tale battuta, e così dovetti rimediare. – No dai, scherzo. Non è che invece una volta visitate smettono di essere Carmen o Lucia o Clara e diventano una paziente qualunque?
- Non è questo. È una questione di rapporti di forza, conoscere dall’interno una persona, in maniera clinica, ti posiziona su un piano gerarchico più forte. Viene a cadere quell’equilibrio che mantiene sana una relazione. Come se uno psicologo psicoanalizzasse la moglie. A quel punto lei diventerebbe la parte debole della coppia.
- C’è a chi piace questo gioco.
- Non a me, lo sai.
A quel punto la discussione passò agli anni di conoscenza che ci univano e a come eravamo diversi prima, quando si pensava di avere dei principi, una coerenza morale. “Prima” eravamo studenti, immersi nei nostri sogni. Avevamo il potere di cambiare il mondo, solo che un giorno ci siamo svegliati ed il mondo era cambiato senza di noi, o era stato lui a cambiarci. Scegliete voi il luogo comune migliore.
Perché stesso le nostre storie erano diventate un luogo comune. Luca finì gli esami per affiancare il padre nel suo studio ginecologico. Io conclusi l’università sognando una carriera all’insegna della creatività e mi ritrovai invece a lavorare come coordinatore della distribuzione delle free press, quei giornali che vengono consegnati ai lavoratori alienati all’uscita delle stazioni. La mia tortura consiste nel fatto di lavorare a stretto contatto con ragazzi più giovani di me di una decina d’anni, quelli che hanno il potere di cambiare il mondo insomma. Quelli come il me di “prima”.
- Perché non hai ancora cambiato lavoro?
- Ci sto lavorando: mando curricula in giro, ma nessuno vuole assumere un trentenne la cui creatività è stata imprigionata per cinque anni in un ufficio di quattro metri quadri a controllare che fine facesse ogni singola copia di un giornale che nessuno è disposto a pagare. - Presi fiato e mi risvegliai demoralizzato.
- Soldi da parte ne hai. Perché non molli tutto e vai a cercare altrove, all’estero, in Spagna. Non era il tuo sogno un tempo: la Spagna.
- E se poi non va? Torno con mammà a casa a farmi stirare i vestiti? A non potermi permettere neanche un cappuccino la mattina?
- Ma se quando andavi all’università non bevevi mai il cappuccino di mattina. La verità è che hai paura di cambiare, di ritornare a sognare. Manda sti cazzo di curricula anche all’estero. A quel tuo amico di Valencia. Fai qualcosa. Muovi un po’ la tua vita. - Stava alzando la voce, quasi infervorato. Sembrava infastidito dal semplice fatto di vedermi seduto di fronte a lui, in quel bar, a far colazione mentre si avvicinavano le otto e mezza e tutti e due eravamo in ritardo per andare a lavoro.
Si mise comodo sulla sedia. Fissò una pagina del giornale lasciato aperto davanti a lui. Lo chiuse e si congedò.
- Io vado, ci sentiamo. – Come al solito non si dilungò in convenevoli. È sempre andata così, nessuna stretta di mano, nessun saluto abbellito con parole di cortesia.
Lo vidi uscire mentre riflettevo sulla possibilità di alzarmi a mia volta ed andare, ma la cameriera mi ricordò del conto. Pagai ed aspettando il resto mi misi a sfogliare le pagine del giornale. Una macchia di cappuccino attirò il mio sguardo sulla bacheca degli annunci funebri: “Giuseppe Scornamiglio prende parte al dolore della famiglia Preganti per la scomparsa di Carlo”, il padre di Luca.
Non andai ai funerali, sapevo che non avrebbe voluto. Ripensai alla nostra discussione e mi sorpresi per come mi fosse apparso normale. Non un tono della voce che tradisse sofferenza e tristezza. Anche quando si era infervorato accusandomi di codardia. Anche in quel momento era il Luca di sempre. Stesse modalità. Stessi comportamenti.
Eppure amava suo padre. A tal punto aveva desiderato il suo bene che si fece convincere a frequentare medicina e laurearsi in ginecologia per aiutarlo in studio, per non lasciarlo invecchiare da solo neanche sul lavoro. Sua madre li aveva lasciati diversi anni prima, quando noi si frequentava ancora il liceo. Lei si risposò poco più tardi con un oculista. In passato aveva accusato il marito di averla tradita con diverse pazienti. Luca non ha mai saputo se fossero falsità o meno. Fatto sta che la signora Preganti, per ripicca, iniziò a frequentare tutti gli studi del quartiere. Medici di base, dentisti, fisioterapisti, chirurghi, podologi, radiologi, per finire con l’oculista, lei che ha sempre visto dieci decimi.
Luca non sembrava soffrirne di questo. Avevamo già negato la sacralità del matrimonio affermando l’importanza della libertà individuale tradotta in libero scambio di sesso, senza anelli in cambio ed a qualsiasi età. Ci applicavamo spesso nel tentare di dare forma concreta al nostro pensiero, con enorme successo per lui, senza per me. Mi capitava spesso di innamorarmi in cambio di prestazioni sessuali, e questo mi portò a fare diversi errori. Distrussi la macchina dei miei genitori quando frequentavo una pilota di kart. Mi diedi allo spaccio di droga perché durante una occupazione avevo dormito con una irriducibile cannabinoide. Finì a vivere un anno in Spagna dopo aver morso su una spiaggia di nudisti il sedere di una ragazza e non aver ricevuto un ceffone in cambio. Olé.
Luca invece non si innamorava. Sempre libero come un marinaio, ed in uno dei suoi spostamenti mi venne a trovare in Spagna. Per un solo giorno. Era diretto in Portogallo ad un rave semi clandestino. Andava per varcare le porte della percezione. Io lo seguii e fu in quel momento che finì l’amore per Guiomar.
Fu l’ultima estate prima di diventare grandi. Verso gli ultimi anni di università infatti iniziammo a cambiare: ognuno scelse la propria visione del mondo. Luca divenne sempre più irremovibile sulle sue posizioni. Io sempre più blando. Fatto sta che ci ritrovammo entrambi insoddisfatti della propria vita. Entrambi intrappolati in quattro mura aliene, cadute dall’alto, che non avevamo scelto. Per questo ci si incontrava poche volte. Cozzavamo su tutto ma quando ci si incontrava avevamo la possibilità di sfogare la nostra frustrazione l’uno sull’altro. L’ultima volta era toccato a lui, oggi toccherà a me.
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Foto (il Martini/flickr)
Continua martedì 26 maggio 2009
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