martedì 14 aprile 2009

Il Milanese 2/2
























Foto (olga slavica/flickr)


... segue da martedì 7 aprile 2009

Il gioco delle zie si fece talmente serio ed impegnato che quando zia Assunta mi chiese una foto per aggiornare l’album di famiglia mi rifiutai categoricamente. Non senza una piccola smorfia di divertimento.

In questo scenario andare a mangiare dalla vecchia zoppa si arricchì improvvisamente di un sapore nuovo: il gusto del mistero. Quel posto diventava sempre di più la concretizzazione della mia intimità. Un luogo dove trovare riposo alla mente. Così, tra una mozzarella e l’altra, dimenticavo le zie e le loro domande. Dimenticavo l’impasse dell’università e della mia vita a Bologna. Dimenticavo le fatiche ed i doveri. Restavo seduto con un’espressione di tranquillità mai avuta prima. Forse tornavo nel grembo materno.

E mai risveglio fu più brutto. Accadde in primavera. Il freddo non minacciava più gli dei ogni mattina. Dovetti trovare un’altra scusa per imprecare: la fatica del lavoro. Avrei preferito stare in giro per la città a prendere il furgoncino come ogni domenica e giovedì per avviarmi verso l’autostrada. Quel giorno forse il cambiamento lo si poteva scrutare nell’aria. O negli sbirri che mi fermarono per una contravvenzione, riempiendomi di domande sul perché viaggiassi verso sud su un vecchio furgoncino.
Ma la sorpresa più amara fu il trovare al posto del ristorante dell’anziana zoppa un cumulo di detriti anneriti dalle fiamme. Era andato tutto a fuoco. La sera prima. L’odore di bruciato non mi permetteva neanche di ricordarmi quello della mozzarella di bufala. Chiesi ad un passante. -E’ stato un incendio-, disse lui. Non ebbi il tempo di chiedere chiarimenti che subito continuò: -Povera signora. Divorata dalle fiamme insieme a tutto il ristorante-. Restai spiazzato. -Ma forse è meglio così-, concluse il passante.
Il ristorante. La vecchia zoppa. La mozzarella di bufala migliore che avessi mai assaggiato. Tutto finito. Ben tornato al mondo.
Poiché al peggio non c’è mai fine, andai da zia Assunta per consumare un buon pasto. La avvisai dell’arrivo imminente con una telefonata. Una volta sul posto mi ritrovai l’intero ufficio investigativo partenopeo dietro ad un piatto di parmigiana. Sul tavolo anche una mozzarella di bufala. La mangiai senza piacere, tra gli sguardi incuriositi delle zie. Quando stabilirono avessi mangiato abbastanza, iniziarono con le domande. Parlava zia Assunta per tutte. Come mai non mangi con la tua fidanzata? Vi siete lasciati? Non ci vuoi proprio dire chi è, o chi era?
Guarda che ti abbiamo scoperto! Il fratello della moglie di Zio Peppino ha detto di averti visto al Ristorante Mirabella la settimana scorsa. Da solo. Come mai? Cosa ci nascondi? Perché mangi in uno stupido ristorante sulla statale piuttosto che dalle tue zie? Non ti piace la compagnia? Non stai più bene con le tue zie? Tu stai combinando qualcosa di losco!
-Sono gay.- Confuso silenzio.
-Come?-
-Sono gay e quel ristorante è frequentato da soli gay. Io vado lì per conoscere nuovi ragazzi.-
Glielo dovevo. Al fratello della moglie di Zio Peppino: andasse a spiegare a sua sorella cosa ci faceva in un ristorante per gay. Prima di tutto la vendetta.
In un secondo mi ritrovai fuori casa, diretto da mia cugina. Pensavo alla stupidità e cecità delle zie. Pensavo che era tutto finito. Pensavo e respiravo con affanno. Dove andrò adesso? Provavo rabbia al ricordo del ristorante andato in fiamme. Non mi importava se a mandarlo a fuoco fosse stata una fuga di gas, la camorra o le zie. Mi rodeva solamente nell’animo il fatto che io non potessi più andarvi a mangiare la mia mozzarella.
Non riuscii a dormire per la notte intera ed il giorno appresso tornai sconsolato col mio carico di mozzarelle. Ne mangiai una come al solito. Buona, non male, ma non è lei.

Continuai quel lavoro per diverso tempo. Ritornai ad un equilibrio instabile nel mio essere studente del nulla e lavoratore inesistente. Più o meno riacquistai interesse per le mozzarelle di bufala. Ma continuai a mangiarle sempre con in testa lei. Le comparavo. Cercavo nel boccone quel sapore nascosto che solo la mozzarella di bufala dell’anziana zoppa aveva.
I cambi di caseificio si fecero più frequenti nella disperata ricerca del caseificio che aveva approvvigionato l’anziana. Mi riusciva difficile tornare sempre dallo stesso pensando che da qualche parte vi è una mozzarella tanto buona o almeno una che la potesse eguagliare. In ogni caseificio nuovo trovavo sempre un difetto. Troppo siero, troppo poco. Un po’ acida. Troppo poco acida. Fredda. Calda. Di plastica.
Qualche volta tornai anche a mangiare dalle zie, quasi per divertimento. Mi guardavano con occhio indagatore. Cercavano il dove fosse la differenza. Forse mi volevano chiedere addirittura se sapessi qualcosa delle tendenze sessuali del fratello della moglie di zio Peppino. In quel silenzio carico di domande mi ci trovai ben presto comodo. Pensando alla sbronza della sera prima. A chi chiamare per la sera successiva e cosa fosse aperto di Lunedì. Pensando. Pensando.
Pensavo anche il giorno successivo in macchina. Mentre mi avviavo col carico pieno verso la statale. L’ultimo caseificio dal quale mi ero approvvigionato restava di molto perso nella campagna attorno al paese. Pensavo quando notai un cartello nuovo con l’insegna che andava ad indicare un caseificio. Da Graziano si chiamava. Certo. Da Graziano. Come non ricordarsi quel nome? Graziano.
Sterzai all’improvviso e seguii le indicazioni fino al caseificio. Prima di entrare cercai di stemperare il nervosismo che mi premeva in corpo. Avanzai fino al bancone e chiesi con tutta tranquillità una mozzarella di bufala, sì solo una. Da 250 grammi va benissimo. Mi passò a lato il ragazzo che quel giorno portava le mozzarelle alla vecchia zoppa. Il posto deve essere questo.
Mi misi in disparte, su un tavolino improvvisato. Forchetta e coltello di plastica in mano. E iniziai a tagliare. Niente rulli di tamburo però. Troppa era l’attesa. Niente sorriso della vecchia. Niente tovaglia a quadri azzurri e bianchi. Niente sensazione di mistero. Niente complicità con la mozzarella. Il primo boccone fu una delusione. Buona era buona. Ma mancava di quel qualcosa che la rendeva superiore. Era una mozzarella come le altre.
Per la prima volta non finii una mozzarella iniziata e mi avviai confuso verso l’uscita. -Signore si sente bene?-
-Ho solo bisogno di un po’ d’aria. -Due, tre, quattro passi. Ero in macchina. Partii con ancora la testa che mi girava alla volta di Bologna. Per non tornare più, pensai.

E invece continuo a tornare nella mia terra. E la gente continua a chiamarmi ‘o Milanese. Praticamente passo due volte a settimana con un furgone bello grosso, non più quello vecchio di vent’anni, a ritirare carta e cartoni dai palazzi di alcune vie del paesello. Una volta riempito il camion mi dirigo alla volta di Grosseto. Lì vicino c’è una ditta che utilizza quel cartone per riciclarlo o per spezzettarlo ed usarlo come imballaggio. I guadagni sono più risicati rispetto alla mozzarella, ma è un lavoro divertente. Conosci un sacco di gente: portieri, vecchie signore, giovani signorine, persone povere e persone ricche della sola umiltà. Se la camorra non mi fa fuori prima, questa estate caricherò un paio di brandine sul furgone ed insieme a degli amici di Bologna ed uno di Napoli andremo alla volta del Marocco. Lì è difficile che notino la differenza tra nord e sud Italia. Poi, se vorrò, tornerò, per farmi chiamare ancora una volta ‘o Milanese.


















Foto (Alessandro Di Maio/flickr)



Fine

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