martedì 28 aprile 2009

Il pilota Mario 1/2


Foto (signorDavide/flickr)




Da piccolo avevo un infallibile metodo per alleviare l’attesa: contavo i secondi. Iniziai a farlo durante le lezioni di matematica, mentre i miei compagni venivano chiamati alla lavagna dando il via ad una lenta processione di balbettamenti ed espressioni monosillabiche. Apriva le danze il Crisafulli che, in un bagno di sudore, era in grado di disegnare simboli illeggibili solo lontanamente simili ai numeri arabi. Veniva poi il turno di Beatrice, maledettamente bella ai miei occhi di infante ma altrettanto intollerabile all’ego a causa della sua totale incompetenza in matematica: delle semplici sottrazioni si trasformavano in viaggi senza meta sulle guance imbarazzate della graziosa.
Pian piano passavano tutti per la lavagna lasciandomi il solo ad attendere un lontanissimo turno. Zucchetti: ero io, l’ultimo in ordine alfabetico, l’ultimo ad essere interrogato.
Così, per non annoiarmi davanti a scene patetiche e pianti supplichevoli, mi rifugiavo trai numeri. Li elencavo uno ad uno, in silenzio, finché non fosse arrivata la maestra ad interrompermi. Contavo ogni secondo cha passava, arrivando a cifre astronomiche e senza perdere mai il conto. Ai milleseicentoquarantasei Crisafulli tornava al banco sconsolato. Ai tremilacinquecentotre Beatrice arrossiva fino quasi a piangere. Ai quattromilasettecentosessanta Luchino iniziava un’interminabile retorica per nascondere palesi difficoltà con le divisioni.
Finalmente, verso gli ottomilaseicento arrivava il mio turno. Mi alzavo in silenzio dal banco, evitando gli sguardi d’odio e di compassione dei compagni. Odio per l’arrogante talento in matematica, compassione soprattutto per quel gilè rosso che la mamma mi obbligava a portare fin dal primo anno di elementari. Il suo essere stretto, rovinato e sicuramente demodé mi relegava nel girone dei socialmente perdenti. Ma per la maestra, ovviamente, era il contrario.
La maestra seguiva dalla cattedra il mio arrivo, sorridendo: ero il suo pupillo, l’unico a darle soddisfazione in tanti anni di frustrante lavoro tra “piccoli delinquenti in divenire”. Alla lavagna iniziavo a dedicarle i miei ragionamenti. Sottrazioni e divisioni si scontravano con addizioni e moltiplicazioni. Guerre di numeri, armati di lance, scudi, virgole e parentesi. La guerra era condotta da due acerrimi rivali: me stesso e la stupidità.

Una solitaria crociata contro l’incapacità diffusa di gestire i numeri: così potrei descrivere le mie elementari.
Negli anni però l’amore per la matematica è scemato, con grande dispiacere dei professori. “A volte ciò per cui sembriamo essere nati è solo quel che gli altri vedono del nostro futuro”. O almeno è così che mi giustifico.
Alle medie ho maturato un profilo basso per sopravvivere ai compagni fisicamente più grossi, anche se con pochi risultati. Alle superiori il profilo è esploso tra occupazioni e manifestazioni, fermi in questura, bocciature e sprint finale per dimostrare che in fondo potevo valere qualcosa anche senza la matematica. L’università: finita in cinque anni e una volta dottore in sociologia stetti diverso tempo senza sapere dove indirizzare la mia vita. Finché non mi inserii a pieno ritmo nella cooperazione internazionale. Lavoro: entusiasmante.
Dell’amore per i numeri mi rimase però l’abitudine di contare i tempi morti. Ho contato i secondi di tutte le attese della mia vita. Ho contato dentro l’armadietto alle medie, obbligato a passarci gli ottocento secondi dell’intervallo. Ho contato i secondi che impiegavo a fumare le mie prime sigarette, trecentoquarantasei secondi, sempre. Il mio primo bacio è durato trecentoventiquattro secondi durante i quali non vedevo l’ora che Beatrice si staccasse da me. L’effetto della prima canna, invece, è stato di seicento secondi circa, steso su un prato, sperando di ritrovare le forze per rialzarmi. Ho contato i secondi di metropolitana per arrivare a lavoro. Quelli passati nel traffico. In fila dal dottore. Al supermercato. Aspettando il taxi. I secondi necessari affinché smettessi di sperare che mio nonno si alzasse dalla bara.

Può sembrare scontato ma sto contando anche ora, seduto su una poltroncina in pelle di una grande e lussuosa sala d’attesa. Sono già arrivato a settecentocinquantasei secondi e la persona che sto aspettando, il Sottosegretario agli Esteri della Repubblica, ancora non si vede. Devo presentargli un progetto importante, da me sviluppato ed organizzato in ogni minimo dettaglio.
Per frenare il nervosismo conto più velocemente del solito: più veloce della normale scansione del tempo. Tento allora di rimettermi al passo e osservo l’andamento delle lancette: click, clock. Click, clock. Click, clock… Mi sento chiamare da dietro le spalle: “L’onorevole l’attende nel suo studio”. Mi alzo ed entro nel suo studio per uscirne appena cinque minuti più tardi, con le spalle incurvate intorno al collo, sguardo perso verso l’infinito. Triste.
“Purtroppo dovrete rinviare l’avvio del progetto almeno fino al formarsi del nuovo governo. Queste elezioni anticipate hanno sconvolto diversi piani. Vedrò però di lasciare una nota positiva su di questo progetto al mio successore. Si tratta di un lavoro molto interessante e non vale la pena lasciarlo da parte. Purtroppo in qualsiasi caso ci sarà da aspettare almeno un paio di mesi”.

Mi avvio verso casa sconsolato e rassegnato a contare i secondi per almeno un paio di mesi. In ufficio aspettano mie notizie, ma penso che li farò aspettare un altro po’. Spengo il cellulare e salgo sul tram del ritorno. La delusione inizia a scatenare la mia perversione “C’è da aspettare? Che cosa mi può costare? Del resto io sono l’esperto dell’attesa. – Pausa – Memorizzerò l’orario ed il giorno in cui sono uscito da quell’ufficio e conterò tutti i secondi che passeranno fino alla formazione del nuovo governo. Quando non potrò contare i secondi lo farà l’orologio per me. Così, quando tornerò ad avere tempo per contarli, mi basterà guardare l’ora, calcolare i secondi passati dalla data di inizio, e ripartire a contare”.
Ormai convinto che questa sia la soluzione migliore e più logica per non sentire l’attesa, mi preparo ad iniziare l’impresa. Ventuno minuti sono passati da quando sono uscito da quell’ufficio, l’equivalente di milleduecentosessanta secondi. Meno tre, meno due, meno uno: via! Milleduecentosessantuno, milleduecentosessantadue, milleduecentosessantatre, milleduecentosessantaquattro, milleduecentosessantacinque, milleduecentosessantasei …

Mi sono addormentato verso i millequattrocento secondi. Gli occhi si sono chiusi da soli. Per la stanchezza e le emozioni, credo. Li ho riaperti che ero già arrivato al capolinea, almeno quattro fermate dopo la mia. Mi alzo, scendo dal tram fermo e desolato e inizio a camminare guardandomi le scarpe. Ricomincio la mia staffetta con l’orologio: è passata un’ora e tre minuti dal punto x. Ciò significa che devo ricominciare dai tremilanovecento secondi. Sotto i miei numeri, i passi si alternano uno dopo l’altro su un asfalto rovinato. A volte schivano buche, feci canine e pozzanghere. Altre volte invece salgono e scendono dai marciapiedi, saltano da una striscia pedonale all’altra, evitano gli altri passi e a loro volta vengono evitati. Salgono scalini e poi li scendono. Si stancano e decidono di fermarsi ovunque, anche su un treno capitato lì davanti. Entrano i passi nel treno mentre la mente segue a contare. Si avvicinano ad un posto a sedere e si mettono a riposo sul sedile davanti. I miei passi mi hanno portato alla stazione, e mi hanno caricato sul treno. Io non li guidavo, mi son limitato a dar loro il ritmo. I miei passi sono saggi, mi hanno portato fino ai ventisette anni e non hanno mai perso un colpo. Quando c’era da scappare correvano, quando bisognava saltare il più lontano possibile volavano. Quando c’era da non pensare, pensavano loro per me.
Una volta seduto sul treno passano pochi secondi e ripiombo in un sonno pesante. Mi sento cullare. Forse sogno, qualcosa di strano e senza senso, che mi farà risvegliare dopo parecchio tempo ma con la certezza di essermi riposato. Aperti gli occhi mi ritrovo nello stesso treno fermo in una stazione aliena, mai vista. Penso per un attimo di aver viaggiato attraverso la dimensione dello spazio tempo, finendo in un universo parallelo. Ma è un cartello a farmi capire dove sono finito: “-> aeroporto”. Seguo la freccia. Ormai sono qui, almeno mi faccio un giro. Salgo su una scala mobile che mi porta al piano degli arrivi, il piano terra.
Centinaia o forse migliaia di persone vagano da una parte all’altra dell’enorme sala. Altre invece riposano su delle poltroncine. Controllando regolarmente l’orologio. Altre ancora poi consumano qualsiasi cosa all’interno dei negozi presenti. Caffè e bevande in lattina. Libri, giornali e riviste. E ancora biscotti con cioccolato, con la vaniglia e con tutt’e due. A turno si avvicinano per poi allontanarsi dagli schermi che indicano l’avvenuto atterraggio o meno dell’aereo. Tutti; seduti; in piedi; camminando; consumando; tutti loro sono lì per una sola cosa: aspettare.
Decido di studiare la loro attesa. Voglio cercare di comprendere le loro tecniche: in quale modo evitano l’insofferenza per il tempo che passa vuoto?
Così li imito. Faccio un giro in libreria e mi metto a leggere i giornali, a sfogliare le riviste ed informarmi sulle trame dei romanzi pubblicati da poco. Faccio pausa e mi dirigo al bar, dove consumo un caffè senza addolcirlo con dello zucchero. Imparo a memoria tutti i voli in atterraggio da qui a due ore e torno più volte per controllarne la puntualità. Poi mi siedo a guardarmi intorno. Ad ogni viso e persona cerco di associare l’aereo in arrivo e il grado di conoscenza con l’atteso. Madri, padri, figli, fidanzate e semplici amici. Due ragazzi gemelli aspettano qualcuno guardando fissi la porta dalla quale dovrebbe apparire. Ipotizzo siano lì per aspettare la sorella di ritorno con l’aereo delle 15e30 proveniente da Londra. Ogni tanto i due parlottano tra di loro. Sono vestiti uguali, salvo per la camicia, portata da uno dentro i pantaloni e dall’altro fuori. Sono entrambi alti e biondi. Belli di una bellezza un po’ ambigua, e forse per questo, a volte, mi sembra si diano la mano di nascosto, in segno di complicità su un loro segreto che nessuno potrebbe comprendere. Dopo averne narrato la storia li perdo di vista, per vederli passare più tardi accompagnati da una ragazza alta e bionda che, prima uno e poi l’altro, li bacia sulle labbra. Lei sorride.
Una madre di tre figli aspetta il marito di ritorno da Monaco di Baviera, con l’aereo delle 16e10. Ne porta uno in braccio, uno lo tiene sottocchio mentre gli urla di non correre e il terzo lo lascia libero di sedersi su una panchina alquanto distante a leggere un libro più grosso di lui. Occhiali grossi, caschetto castano chiaro, faccia ingenua ma responsabile: avrà sì e no otto anni. Legge immerso tra le pagine, stregato dalle lettere, da come componendosi in varie maniere riescano a formare diversi significati, e i diversi significati cambiano a seconda delle frasi in cui sono inserite. Lo osservo perdersi in alcuni passaggi, concentrato nella comprensione di una parola, una sola che gli impedisce di andare avanti. Guarda la madre, vorrebbe chiamarla in soccorso ma poi ci rinuncia, troppo lontana e troppo impegnata a gridare dietro al fratellino. Suo padre arriva che lui ancora non ha spostato gli occhi da quel rigo. Felice il padre nel vedere le sue creature, felice la madre nel vedere il marito assente da tanto tempo. Felici i bambini nel vedere i genitori assieme. Un circolo di affetto che mi fa sorridere per celare la malinconia che mi provoca quella visione. Il bimbo, col libro in una mano e la mano del padre nell’altra cammina fiero a lato della sua famiglia. Quando mi passano vicino il bimbo mi osserva velocemente e gli torna in mente la parola mancante. Rivolgendosi al padre domanda: –Papà, cosa vuol dire “tedio”?
























Foto (Aelle/flickr)


Continua martedì 5 maggio 2009