Foto (*mklex/flickr)
... segue da martedì 28 aprile 2009
Al piano degli arrivi sono tutti sereni. Chi arriva è felice di essere tornato o partito. Di sentirsi di nuovo a casa o finalmente spaesato. Chi aspetta accoglie l’aspettato con abbracci, strette di mano e, sempre, un sorriso. Anche quando le condizioni circostanti non lo permetterebbero.
C’è un ragazzo che aspetta in piedi davanti all’entrata. Aspetta la madre, che torna dagli Stati Uniti con il diretto da New York delle 16e30. Ha lo sguardo buio, mentre pensa al padre scomparso appena il giorno precedente. Lui odia sua madre fuggita in cerca di speranza in un altro paese, con un altro uomo. Ma adesso si è ritrovato solo di fronte al suo dolore, quello della madre. Non sa perché ma dall’odio è passato alla comprensione. Scappare alla fine non è da vigliacchi, non più che restare. Il ragazzo lo ha appena compreso ed è per questo che quando abbraccia la madre, appena spuntata al di qua della porta, la stringe forte e piange con lei. Piangono in silenzio, ritagliandosi uno spazio di intimità in una sala piena di gente che li osserva. Piangono ma quando si guardano sorridono.
La storia di Amina, ragazza senegalese, hostess di una compagnia che la obbliga a vestire colori ridicoli, mi porta al piano di sopra. La vedo attraversare le porte a vetri al primo piano e camminare sicura verso l’altra parte del corridoio, verso le scale mobili. Le hostess hanno la capacità di non dover mai aspettare. Sempre puntuali entrano ed escono dall’aeroporto al momento giusto, ne un secondo in più ne uno in meno. Le loro colleghe che lavorano a terra ogni tanto capita di vederle sconsolate, annoiate in attesa del permesso ad imbarcare. Ma le fate dei cieli mai, loro no.
Ed Amina non è da meno. Il ritmo dei suo tacchi scandisce i secondi che lei sa impiegherà per arrivare all’imbarco. Ha già calcolato tutto. Anche la pausa al bagno. La seguo fino all’angolo, poi decido di aspettarla fuori. Passano diversi minuti durante i quali ho il piacere di osservare le famiglie prese nell’imballare le valige delle vacanze a Sharm. L’uomo d’affari in giacca e cravatta pronto per Dubai. Il ragazzino che saluta la ragazza al momento dell’imbarco. L’interminabile fila del check-in, dove le valige si alternano alle persone, le ruote dei carrelli ai piedi.
Amina intanto non esce, ed io decido di entrare. Controllo che nessuno mi noti mentre varco le porte della toilette femminile e subito mi infilo in uno dei bagni. Sento il chiavistello di una porta aprirsi. Dalla porta socchiusa spio verso l’esterno. È Amina. Si lava le mani, riprende la valigia lasciata in un angolo ed esce. Sto per ricominciare a seguirla quando un altro rumore mi ricaccia dietro la porta. Dalla stessa porta di Amina esce Mario, pilota un po’ attempato ma dallo sguardo giovane. Lo osservo chiudersi la cintura davanti allo specchio e sciacquarsi la faccia. Lui ha appena finito il suo turno, tornato da un volo internazionale. Bentornato Mario.
Le mie storie si susseguono l’una alle altre. Le osservo, le creo unendo gli elementi e poi le narro a me stesso, nascosto in un bagno femminile a guardare Mario attraversare l’uscita. Esco dal mio nascondiglio e mi osservo allo specchio. La mia storia qual è? Cerco di guardarmi come se non mi conoscessi. Quali elementi potrebbero farmi capire il segreto che mi porto dentro. La voglia di fare. Sono vestito normale, e pettinato normale. Non do nell’occhio per una mia stravaganza. Maglietta nera sotto un maglione nero. Pantaloni neri. Sembro un normale cittadino che paga le tasse e va a fare la spesa il sabato pomeriggio. Il mio nome è qualsiasi, più qualsiasi di quello di Mario, facesse anche Rossi di cognome.
Non ho cicatrici e il mio sguardo è pacifico, di chi non ha mai affrontato i conflitti, ero troppo occupato a contare. Uno, due, tre. L’importante è non pensarci. Avvicino il viso allo specchio, voglio vedermi da più vicino. Voglio osservare i miei occhi e cercarvi una luce. Mi avvicino piano e con cautela, potrei perdermi il momento giusto per una eccessiva velocità. A due centimetri dalla superficie dello specchio, quando il mio naso sta per fondersi con quello del mio gemello intrappolato dietro il vetro, la noto. Vedo una luce nell’occhio che lo riempie di tristezza. Soffro, quindi sono vivo. Riesco a vedere la mia sofferenza, quindi non sono ancora fottuto.
Esco dal bagno di corsa e raggiungo il primo bancone che incontro. Compro un biglietto per Parigi, ed uno da Parigi a Miami. Da Miami prenderò un terzo volo per Bogotà. Vado a sviluppare il mio progetto, senza Sottosegretari. Basta aspettare, basta contare.
All’imbarco ripenso a quello che sto lasciando. Le tapparelle aperte in casa. Il pesce rosso senza cibo. Un lavoro voluto e cullato per tanto tempo, dopo tanti sforzi e tante attese. Giulia, che stasera mi aspetta al ristorante, alle otto e un quarto. Il divano dove faremo sesso. E la doccia che mi sveglierà domattina. Lo sto facendo. Li sto lasciando qua. Subito ripenso allo specchio. Alla luce che non si è ancora spenta. Devo fare in fretta. Un altro giorno qua e potrebbe essere tardi, potrei essere perduto. Ticchetto nervoso le dita sul passaporto. Il momento sta arrivando ma me ne accorgo veramente solo quando mi siedo al mio posto, già nell’aereo. Tra i sedili davanti intravedo la porta dell’aereo. Le persone hanno smesso di entrare. Quanto tempo ci metteranno a chiuderla? Sono ancora in tempo per varcarla all’incontrario. Potrei scendere e tornare a chiudere le tapparelle. Entro le otto sarei da Giulia. Il divano. Il pesce rosso. Quanto tempo ci metteranno a chiuderla? Chiudo gli occhi ed aspetto, mentre le mie labbra formano suoni sordi: uno, due, tre, quattro, …
Foto (il ramingo/flickr)
Fine