Foto (Quarat RMX/flickr)
... segue da martedì 24 febbraio 2009
E da quel ricordo si arriva ad oggi. Di anni ne sono passati molti e io mi avvio ad essere sempre più vecchio. Me ne sto seduto qui in disparte, in un angolo buio del ristorante, perché nonostante il nome non sia cambiato, di un ristorante ora si tratta. Ho un piccolo tavolo davanti a me con una sedia sempre vuota dall’altra parte. Osservo la gente che viene a mangiare ma non mi siedo più con loro. Osservo i giovani camerieri che hanno preso il posto che da mio padre passò a me e da me a loro, ma non ne ammiro l’eleganza. Sono ormai disilluso poiché è da molto tempo che qui non entra più nessuno a cercare il proprio destino. Sono spavaldi i nuovi clienti: combattono il tempo con le parole e non si fermano ad ascoltare. Li vedo con facce serie e sicure, mai titubanti di fronte ad una tavola vuota. Parlano e parlano e, quel che è peggio, i discorsi sembrano non essere cambiati da quando in questo posto entravano solo futuri dei.
Ma una sera, dal mio angolo buio, vidi entrare un giovane ragazzo. Camminava con un lieve dondolio ad ogni passo, guardando e osservando inutili particolari intorno a sé. Cercava un lavoro, e mio figlio, il quale si occupa ormai di tutto ciò che riguarda il “ristorante”, lo prese a lavorare senza fare troppe domande. Oggi si viene raccomandati pure per fare il cameriere. Iniziarono strani giorni da quella sera. Passavo il tempo ad osservare il giovane, come si muoveva tra i clienti. Non era elegante nemmeno lui nello svolgere il suo lavoro, ma spesso sembrava ascoltare con interesse i discorsi dei clienti, quello stesso interesse che ponevo anch’io quando, da piccolo, mi sedevo a tavola con i grandi.
Con i giorni e le settimane lo vidi sempre più affascinato da quella gente che mangiava senza un perché. I loro discorsi entravano nella sua piccola testolina di giovane e riempivano ogni spazio disponibile e, a giudicare da quell’aria sperduta che si portava in giro camminando tra i tavoli, di spazio vuoto ce n’era molto. Forse fu per questo che dal mio angolo buio, osservando, mi affezionai a quel ragazzo stupidotto prendendo a cuore il suo destino così fertile agli ideali. Picchiai con delicatezza il coltello contro il bicchiere per attirare la sua attenzione, e quando si girò a guardare da quale parte venisse quel richiamo, gli indicai il posto vuoto davanti a me per potersi sedere.
Erano ormai quasi due mesi che lavoravo in quello strano ristorante. Tutte le giornate e tutte le sere mi presentavo puntuale davanti alla porta di legno ed entravo. La sera uscendo notavo sempre uno stesso gruppo di ragazzi che si riunivano in fondo alla via. All’inizio li guardavo con invidia, per il loro sembrare così spensierati e felici nel passare le sere in quel piccolo vicolo, ma poi col tempo passai a considerarli degli sfaccendati cui la vita, dandogli tutto, nulla gli abbia mai insegnato. Io, al contrario, dentro apprendevo molte cose. Passando trai tavoli non mi lasciavo mai perdere l’occasione per spiare i miei ospiti, ascoltarli e carpire il senso delle loro vite. Grazie alle loro soste per approfittare di un buon pasto scelto dal ricco menù, conoscevo il riassunto del mondo al di fuori. Viaggiavo con loro nei posti da cui erano appena tornati oppure mi intromettevo nei loro discorsi senza aprire bocca. Sempre però rimanevo affascinato dalla certezza che mostravano nel percepire il mondo e per questo mi riusciva difficile confutare i loro ideali come invece avevo fatto con mio padre quell’ultima volta.
Ciò che rendeva veramente strano quel posto, oltre a delle vecchie foto appese, raffiguranti gente sconosciuta, era un anziano signore che mai ho visto in un luogo diverso da dove soleva sedere. Con le braccia poggiate sull’addome ed una gobba appena accennata, sembrava aspettare la visita di qualcuno da un momento all’altro: prova ne era la sedia vuota lasciata all’altra estremità del tavolo. Così come lui non lo si poteva mai vedere se non seduto al suo posto, anche la sedia non poteva mai essere utilizzata da alcuna anima viva. Per questo potrei dar ragione a suo figlio quando dice che il vecchio aspetta che lì si sieda la morte.
Ma non fu la morte a sedervi, almeno che non sia io la morte stessa. Un giorno infatti mi capitò di essere chiamato da quell’anziano signore ad occupare il posto davanti a lui. Stavo preparando i tavoli per l’imminente apertura quando sentii il rumore che l’acciaio fa contro il cristallo, lo stesso che si sente nei film quando si vuole richiamare l’attenzione in previsione di un discorso: solitamente l’occasione è un matrimonio. Mi guardai in giro per vedere se qualcun altro l’avesse notato e incappai nello sguardo del vecchio che, sollevando quella sua pesantissima mano, mi indicò la sedia vuota davanti a lui.
Mi avvicinai con calma ma con enorme curiosità. Che cosa voleva mai quell’uomo da me? Forse rimproverarmi per qualcosa di fatto male: non credo, penso di essere uno dei migliori là dentro nonostante la poca esperienza.
Dalla sua espressione saggia, data dall’immobilità del suo sguardo, mi chiesi se non fosse lui il destino che stavo cercando. Considerandola una possibilità neanche troppo remota iniziai a pensare bene alla struttura delle domande che gli avrei fatto e al giusto ordine con cui porle. Come un saggio di una foresta mi avrebbe accolto ed illuminato sul destino degli abitanti di questa città, e del paesello soprattutto. Semmai la sua rivelazione avrebbe risolto il problema di tutti gli esseri umani, ed io mi avviavo ad essere il prescelto.
Mi sedetti infine, ed aspettai di sentire la voce del vecchio saggio.
“Ci fu un tempo qui in cui passavano solo cavalieri per abbeverarsi e mangiare alla mia tavola. Le loro soste mai erano prive di parole corrette. Mai si abbandonavano al silenzio una volta che i loro stomachi fossero pieni di un caldo pasto e di un buon vino. Io li vedevo in quell’atto ed ascoltavo con umile attenzione le loro storie. Erano storie di guerra, storie di coraggio, nato dalla forza dei loro ideali. Gli uomini sconfiggono qualsiasi paura con gli ideali perché la paura più grande è la vita vuota data da una morte inutile.
“Quei cavalieri entravano sotto mentite spoglie, con baffi e barbe folte a nascondere la purezza della loro pelle. Sporchi e con vestiti stracciati per distogliere l’attenzione dai loro occhi, perché, devi sapere giovane stupidotto, che quei cavalieri altro non erano che dei. Dei scesi in terra per guidare dei fortunati uomini verso una degna morte, che concedesse loro l’ascesa verso il regno dell’immortalità.
“Ma adesso, ragazzo mio, non più questo suolo sarà calpestato da gente di cotanta grandezza e magnificenza, poiché di cavalieri così se ne incontrano con difficoltà e certo mai penseranno di passare in questo luogo. Ormai, da oasi di ristoro per dei e semidei, questi tavoli non son diventati altro che pezzi di legno senza vita, celati nella loro miseria da stupide tovaglie. Sui loro piani vi mangiano i figli di quegli uomini ma che a quegli uomini non assomigliano affatto. Parlano anche loro di guerre e di coraggio, ma senza cognizione di causa. Anche loro rivolgono agli ideali come punto di massima ispirazione, ma senza conoscerli. Si credono dei, ma sono servi di loro stessi.
“Tra le loro parole si intervallano solo morsi voraci alla carne servita loro nel piatto. Le loro dita non più di sangue proprio sono macchiate, ma di sangue di povere vittime sacrificate al loro sentirsi immortali. Mangiano e non si saziano. Mangiano e ingrassano senza mai scoppiare. Se resti qui ragazzo mangeranno anche te, perché non anno pietà. Ti leveranno l’anima come hanno fatto con tutto ciò che li circonda, con immagini di ideali destinate a cadere al primo soffio di una grande tempesta. Fuggi. Scappa. Come te lo devo dire, stupido fanciullo, vai via prima di non ricordarti nulla di ciò che ti ha insegnato tuo padre”
Il racconto funzionò. Il ragazzino si alzò senza scostare lo sguardo dai miei occhi e corse verso la porta di legno. Spero di non averlo spaventato troppo in quella occasione: non pensavo che le parole di un vecchio, seppur arricchite di tanti eufemismi, potessero avere un effetto così grande. Il ricorso alla mitologia di sicuro mi ha dato un sostanzioso aiuto. Cavalieri, guerre, dei: ancora adesso mi sorprendo da solo di tanta fantasia, non è affatto facile alla mia età. Ma il colpo di grazia penso di averglielo dato menzionando suo padre: lo avevo letto negli occhi il suo rispetto per il padre, così simile al mio.
Uscii correndo, ma correndo felice. Le parole del vecchio si erano rivelate più che profetiche: erano le risposte che cercavo. Nulla più mi perseguitava. Ero più leggero che all’andata.
Arrivai però solo all’angolo in fondo al vicolo perché lì mi fermò un qualcosa od un qualcuno travolgendomi. Caddi a terra e subito riaprii gli occhi per conoscere la causa di quella interruzione. Misi a fuoco non senza un lieve astio per colui o per quel qualcosa che aveva fermato la mia corsa verso la libertà. Al posto della strada che incrocia il vicolo vidi in effetti un piccolo furgoncino, con alla guida un ragazzo che mi guardava con un espressione abbastanza sconcertata più che spaventata. Lo sportello posteriore si aprii per lasciare affacciare una graziosa ragazza che con un cenno della mano seguito da alcune parole mi invitò a salire. Mi sollevai ed entrai con fatica nel furgone. Dentro era pieno di altri ragazzi ancora mentre una cartina dell’Europa sulla quale mi ero appena seduto, mi fece capire che la corsa non era interrotta, ma stava giusto per cominciare.
Foto (Eric Perrone/flickr)
Fine
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