martedì 7 aprile 2009

Il Milanese 1/2


Foto (La qù-Silvia Matteini/flickr)


La vita, per un figlio di immigrati, è sempre un poco più ridicola, rispetto alle altre. Poi se di quel paesino vicino ad Aversa, conosci solo alcune facce e le case dei parenti durante le feste di Natale, la cosa acquista anche uno strano senso surreale. Ma quando ti iniziano a chiamare terrone, trai banchi di scuola, solo perché di quelle facce e di quelle case vai orgoglioso, al ridicolo si aggiunge anche un po’ di surreale. E così che inizi a pensare come loro: non i compagni di classe, ma gli amici che non hai mai conosciuto, quelli che girano sotto casa di zia Assunta sui loro motorini e sempre senza casco. Inizi a convincerti che nel tuo sangue non potrà mai scorrere l’idea di essere del nord, ma che resterà sempre, nonostante gli manchi l’accento giusto, un sangue terrone.
Dall’interno di quell’aula buia, nonostante fosse una splendida mattinata primaverile, vengo proiettato con la mente ad oggi, sul divano di camera mia. La mia posizione è ferma e fissa. Con il bacino tirato avanti e le spalle che sembrano voler scivolare sempre più verso terra, guardo un punto davanti a me da diversi minuti, forse ore, forse secoli. Rifletto. O piuttosto cerco le forze per alzarmi e partire. Detto fatto. All’appello non manca niente. Giacca, portafoglio, chiavi. Ah, gli occhiali da sole. Quelli fanno la differenza, sempre.
Entro nel furgoncino parcheggiato sotto casa inneggiando ad alcuni santi e morti di chissà quale persona. E’ il freddo a farmi imprecare. Avvio il motore, solita strada, solite persone che si incrociano. Solita entrata verso l’autostrada.

Buongiorno. E’ finalmente l’una del pomeriggio, sono quasi all’altezza di Roma, dopo quattro fottute ore di viaggio. Finalmente riesco a capire di essere vivo e sveglio e a ricordarmi le bevute della sera prima. Finalmente ho la forza di fermarmi all’autogrill e prendere il caffè della mattina. Sono Giuseppe, ma non chiamatemi Beppe per favore. Chiamatemi Bebè come preferiscono i miei più cari amici. Oppure il milanese, come mi chiamano “dalle mie parti”.
Sono uno studente. Studio al Dams di Bologna: recitazione. Ma non diventerò un attore. Ho scelto quest’università per allontanarmi da Milano. Ad un figlio di immigrati Milano comincia a stare veramente stretta verso i diciannove. Così, dopo un anno a giurisprudenza mi sono lanciato nel mondo dell’arte. E sono quattro anni che sono fermo al primo anno, ma con qualche esame del secondo già fatto, da intendersi. Per campare, non potendo chiedere soldi ai miei, mi sono aperto un’attività semi-clandestina. Nulla di pericoloso o troppo illegale. Del resto è iniziato tutto per un puro caso. Amici, amici di amici: tutti hanno iniziato a chiedermi di portar loro delle gustose ma soprattutto originali mozzarelle di bufala. Così due volte alla settimana scendo da qualche parente, vado in un caseificio di fiducia e riempio un furgoncino vecchio di vent’anni di mozzarelle di bufala.

“Dalle mie parti”, dicevo, mi chiamano il Milanese, ‘o Milanese per la precisione. “Raffaè, è arrivato ‘o milanese” li sento urlare quando entro nel negozio. Destino beffardo. Nemico in patria e straniero all’estero. Ho sempre viaggiato su questo binario doppio, ed in verità l’ho sempre presa in maniera ironica. Questo essere a cavallo tra due mondi ma con nessuna patria mi ha sempre aiutato a pensare un passo avanti di quello alla mia destra. Ed infatti sono riuscito a tirare su la mia rete di smercio della mozzarella in poco più di un mese. Amici di amici appunto, ma anche sconosciuti arrivati a me col passaparola. Fanno la fila per aggiudicarsi qualcosa da almeno uno dei miei due viaggi settimanali. La mozzarella di bufala è un bene raro.
E ne ho conferma ogni volta che ritirata la merce mi fermo a lato della strada, scelgo a caso una cassa di mozzarelle da dietro il furgoncino e ne “testo” una. Normalmente dopo un po’ un bravo smerciatore di bufala ha bisogno di cambiare caseificio, di fare a rotazione. O meglio: questa è la mia regola. Perché infatti coi grandi numeri i caseifici reggono poco, e dopo un paio di mesi la mozzarella non mantiene il sapore originario.
Quando il caseificio è nuovo, dicevo, la mozzarella di bufala ti si scioglie in bocca. Ma a dirla così è un po’ riduttivo. Ne tagli un pezzo e vedi il siero circondare la ferita. Apri la bocca e ti avvicini al boccone con le papille gustative e la testa concentrate solo sul momento dell’impatto. La lingua viene a contatto per prima, e senti il siero scendere ed allagare le fauci, finché tutto il boccone inizia a cedere con benevolenza sotto una lieve pressione dei denti. Un paio di masticate e il sapore invece di svanire aumenta. Ma la mozzarella veramente buona è quella che ti lascia quel sapore forte in bocca, quel retrogusto che si deve creare per una strana reazione con l’aria. Aria di Napoli o di Bologna il sapore vincente resta sempre vincente. Non credo a questa storia dell’aria o, più che altro, non penso possa influenzare così tanto il sapore di una mozzarella di bufala.

Mi è andata sempre bene con il traffico di mozzarelle. Bei soldi. Dicevo. Pochi rischi. Coscienza a posto. Parto la Domenica in seconda mattinata per arrivare per l’ora di cena a casa del parente di turno che mi ospita. La mattina dopo passo dal caseificio e ritiro la preziosa merce. Poi alla volta di Bologna, dove in tempo per le cinque-sei del pomeriggio distribuisco le mozzarelle ai richiedenti, senza che mai me ne avanzi una. In questo sono molto bravo. Nel vendere. La fama del terrone, per di più napoletano, mi ha seguito anche a Bologna, qui dove la concorrenza vi giuro è molto agguerrita ed è difficile sentirsi rinfacciare la provenienza. Nonostante ciò con la mia fama di terrone napoletano la gente si fida di me ed al momento giusto, metti che qualche cliente rinuncia alla sua mozzarella della settimana, riesco ad usare la loro fiducia per finire la merce in esubero guadagnandoci il doppio.
Di giovedì, sempre seconda mattinata, parto nuovamente per il secondo giro settimanale. E via così da ormai tre anni.

Un giorno zia Assunta, che mi doveva ospitare, mi disse che non sarebbe stata a casa per cena a causa di un imprevisto urgente. Dopo le domande di rito per assicurarmi che stesse tutto a posto, decisi sul da farsi. Normalmente mangiare dai parenti ha un doppio vantaggio: risparmi e ti riempi, e per uno studente fuori sede sono due aspetti fondamentali che insieme risolvono molti problemi. Inoltre capita di incontrare anche qualche cugina della propria età con la quale scambiare chiacchiere ed uscire ogni tanto. Ma quella sera, per quell’imprevisto urgente, mi ritrovai spiazzato. Così abituato a questa piccola routine settimanale non seppi cosa fare. Ed una volta arrivato in prossimità della casa di zia Assunta non mi rimase altro che fermarmi di fronte ad un ristorante dall’aspetto modesto, dirimpetto alla statale.
Entrai e salutai con garbo e cortesia ma in silenzio, sapendo fin da subito che con la prima parola detta mi avrebbero etichettato come uno del nord. Presi posto in un tavolo isolato, e per un attimo mi sentii anche importante. In quel momento ero un rappresentante, un camionista, un padroncino o qualsiasi altra persona che deve mangiare al ristorante da solo per lavoro. Comunque ero un lavoratore adulto. Questo ti da una certa convinzione di poter essere preso sul serio. Una signora di una certa età mi portò la lista mostrandomi un sorriso accogliente e simpatico. Zoppicava con eleganza e parlava il sua accento in molto gradevole. Scambiammo qualche parola di cortesia e subito il suo fare mi fece dimenticare le arie da adulto. Rimisi le mie vesti e mi sentii molto più a mio agio.
Scorrendo rapidamente il menù fermai il dito su una porzione di parmigiana e un piatto a parte di mozzarella di bufala, senza nulla affianco, le specificai.
Come di consueto mi lanciai sulla parmigiana con voracità e lasciai per ultimo il pezzo forte della cena. Momento solenne. Mi suonai in testa delle piccole trombe per rompere la noia della solitudine. Bloccai la vittima con la forchetta e l’accarezzai con la lama fredda del coltello. Un colpo decisivo e potei avvicinare alle mie labbra la carne sgocciolante di siero per farla tastare dalla lingua. Fino a qui tutto bene. Con semplicità mandai giù il primo boccone e poi pian piano, con calma e un certo stile dato dalle trombe di sottofondo, arrivai alla fine della mozzarella intera. Mi poggiai con la schiena sulla sedia prima di scoprirmi terribilmente soddisfatto di quella mozzarella. Il suo retrogusto stava dando una sensazione inaudita di piacere alla gola, cosicché rimasi del tempo a ripassarlo e ricordarlo, finché la simpatica signora non mi portò un’altra mozzarella specificandomi che era offerta dalla casa. La seconda volta fu una sorpresa ancora più dolce.
-Signora, ma lei dove si rifornisce per avere una mozzarella tanto buona? -Tornai a recitare per convenienza la parte dell’adulto. Volevo essere un rappresentante. Mi avrebbe dato più possibilità di arrivare allo scopo.
-Questo non posso dirglielo. E’ il segreto del ristorante. -Signora 1, rappresentante 0.
-Capisco, ma sa.. glielo chiedevo perché i miei coinquilini vanno pazzi per la mozzarella di bufala e vorrei prenderne un bel po’ da portargli su domani. -Provai la carta del giovane innocuo.
-Mi spiace, è che non posso proprio dirtelo. Io ricevo lo stesso quantitativo di mozzarella da dieci anni tre volte alla settimana, e mi va tutta via con facilità. Comunque riferirò che ti è piaciuta, ne saranno molto contenti al caseificio.
-Grazie lo stesso signora. Mi può fare la fattura gentilmente? Tornai ad essere il rappresentante e mi inventai una ditta ed una partita iva adatta al gioco: De Cecco, P.I. 10438205586603. Sicuramente sbagliai mettendo qualche numero di troppo, ma la cosa rese solo più divertente il tutto.
La sera la passai tranquilla. Arrivai a casa che la zia era già tornata. Era una domenica, così non mi fu difficile addormentarmi subito per recuperare le ore di sonno perse la notte prima.

Non faccio mai colazione quando sono a Bologna, ma qui giù il piacere di un caffè napoletano non me lo perdo mai. Deve essere il luogo a darmi questa sensazione nel berlo. Lo gusto già vedendolo versare dalla moka.

Arrivo dal fornitore che sono già le dieci: mi piace la vita dai ritmi rilassati. Un ragazzino di nove o dieci anni mi aiuta nel riempire il furgoncino e vado via che non sono ancora le dieci e mezzo. Lungo la strada ripasso davanti al ristorante della signora e noto subito un vecchio pandino parcheggiato immediatamente fuori dall’entrata, Un ragazzo sta scaricando dei pacchi. Vi è un duplice scambio di sguardi. Freno per non tamponare la macchina davanti. Lui riprende a scaricare. Sicuramente è mozzarella quella. Osservo il furgone del ragazzo: tombola. Sul lato vi è scritto l’indirizzo e il nome del caseificio. La penna. Il mio impero per una penna. Dov’è? Nel cruscotto? No. Sotto il freno a mano? Nemmeno. Dietro il sedile? Ritenta che sarai più fortunato. Mi suonano da dietro. Terroni di merda. Sto per accostarmi e mandarli a quel paese quando vedo che a suonare è stata un’Alfa della polizia. Al diavolo la penna. Me lo ricorderò a memoria. Faccio segno di scusa con il braccio e riparto. Prima, seconda, terza e via verso casa. Come si chiamava la via del caseificio?

Persa quell’unica occasione di carpire il segreto dell’anziana zoppa, non mi rimase altro che continuare a tornare a farle visita. Con la stessa solitudine ma sempre in compagnia del rullo di tamburi. Ogni boccone era nettare iniettato direttamente sulle papille gustative. Ogni incisione alla perfezione di quel concentrato di bontà era l’annuncio di un amplesso.
Le zie iniziarono a fare domande sul perché non cenassi con loro. Per evitare di rimanerne soffocato dalle loro rimostranze mi inventai una fidanzata: e fu peggio. Curiosità mista gelosia mi resero insopportabile il soggiorno. Dovetti farmi ospitare da mia cugina e da suo marito. Gente simpatica, per carità, ma il loro divano mi uccideva, giorno dopo giorno, partendo dalla metà esatta della schiena.
Ma non solo. Ovviamente la notizia si sparse per la rete infinita di parenti, tanto che la scusa della fidanzata mi costò addirittura una chiamata da parte di mio padre conclusasi con: -adesso è l’ora di mettere la testa a posto-. Come se ciò non bastasse si era costituito un comitato di zie con l’obiettivo di decidere quale fosse la fortunata. A detta di mia cugina, le grandi sagge si riunivano ogni mercoledì pomeriggio davanti ad un caffè. Si iniziava con il nome di qualche figlia di conoscenti loro per spostarsi in seguito sulle figlie dei conoscenti dei conoscenti. Finiti i nomi iniziarono ad avviare un’attività investigativa. Chiesero a chiunque potesse lontanamente conoscermi, se mi avessero mai visto con una ragazza o simili.




Foto (elle_effe/flickr)


Continua martedì 14 aprile 2009