martedì 10 marzo 2009

La trattoria degli dei e degli ideali 1/2


Foto (::Ebro::/flickr)


In un vicolo sperduto di una città di cui non voglio fare il nome, si trova uno strano ristorante. Solo una porta di legno indica la sua presenza. Su questa porta vi è inciso il nome di questo particolare luogo: “Trattoria degli dei e degli ideali”. Io vi entrai in una serata di fine Luglio, quando il caldo del giorno smette di tormentare i passanti ed una debole frescura porta con se gli odori dell’estate. Avevo percorso svariati chilometri per arrivare fin qui, a chiedere lavoro, con la certezza di trovarlo. L’indirizzo me lo aveva dato il notabile del paese dal quale provengo: il proprietario è un suo amico di vecchia data.

Neanche del mio paese natale vi dirò il nome, ma vi basti sapere che è sperduto tra ruvide montagne, isolato dal mondo e arido di giovani. I suoi abitanti non saranno più di una cinquantina, tutti però accomunati da un unico grande segreto. Certamente vi verrà difficile comprendere come un segreto possa essere tale se condiviso da un intero paese, ma basta pensare ad un omicidio, in casa vostra. Tutta la famiglia assiste alla morte violenta di un ospite, un conoscente. L’assassino è uno di voi, sapete il suo nome ma vi vergognate a pronunciarlo perché di quell’omicidio siete complici: non lo avete fermato nella sua premeditazione né nel suo svolgimento. Tutti, in famiglia, vi trovate da un momento all’altro a condividere il peso della morte di un uomo. Ebbene, nel mio paesello, quell’uomo si chiamava libertà.
L’assassino è una persona di cui già vi ho parlato. Si tratta infatti di quel notabile il cui amico gestiva e, sono sicuro, gestisce tutt’ora il ristorante nel vicolo. In paese è sempre stato chiamato, dacché io ricordi, l’Avvocato, per via di un suo ritenersi tale. Ma di chi fosse avvocato nessuno sembra se lo sia mai chiesto. Si svegliava la mattina non troppo presto, e sempre con sconcertante puntualità, ritirava dal ciglio della sua porta la cassa d’arance che mio padre lasciava appositamente per lui, e rientrava in casa. Lì vi restava per un’oretta dopodiché usciva per fare i suoi giri. Entrando nelle case della gente senza bussare poiché si sentiva il proprietario. Là si intratteneva con discorsi sempre nuovi ma già sentiti sui recenti fatti nazionali, e andando di casa in casa controllava in qualche modo il suo potere. Infine, cascasse il mondo, passava per la casa dei miei genitori. Alle quattro. Ogni giorno. Qui lo attendeva mia madre, la più bella donna del paese, nonché la sua amante. Mio padre, che, qualora non lo abbiate capito, di mestiere faceva il fruttivendolo, era a conoscenza di questo fatto, ma è sempre riuscito a dissimulare il dolore, sempre che ne abbia mai provato.
Infatti il fruttivendolo del mio paese era un uomo gioviale, sempre allegro ma soprattutto calmo. Cadessero meteoriti infuocati dal cielo lui riusciva sempre a tenere la sua ormai proverbiale calma. Non so dove trovasse quella forza, ma ho sempre pensato di essere stato io, suo figlio, il motivo di tanta caparbia tranquillità. Eppure, come avrete intuito, i problemi non gli mancavano. Oltre alle già menzionate corna che si portava in giro per tutto il paese, era indebitato fino al collo, come tutti gli abitanti del paesello, del resto. Con chi fosse indebitato è un segreto che non mi sento di svelare apertamente, forse per un ingiustificato rispetto nei confronti dei miei ormai vecchi compaesani. Non è certo difficile da indovinare ma, qualora intendeste, non pronunciatelo, siate complici anche voi, un pochino.

Mio padre si era indebitato principalmente per me, per farmi studiare. Per mandarmi nella Capitale a seguire l’università e, una volta laureato, non tornare mai più in quel luogo che mi ha visto nascere e crescere. Sempre ricorderò i suoi infiniti discorsi su ciò che l’istruzione può dare. Tra tutto, la parte che provocava maggiore passione nelle sue parole, se di passione si potesse parlare, era quella riguardante gli ideali. Mio padre era un convinto sostenitore degli ideali. Non concepiva la vita senza ideali. Sempre, interpellato su un qualsiasi argomento, soleva rispondere con una massima, un detto, un suo personale pensiero. E nei nostri discorsi mi esplicava il suo ragionamento secondo il quale una maggiore istruzione porta ad avere maggiori e più forti ideali.
Nella mia personale percezione della realtà, ero abituato a pensare il fruttivendolo e l’Avvocato uno come padre quale era e l’altro come patrigno, perché dovete sapere che in effetti si comportava come tale: ostentava uno strano interesse per tutto ciò che facevo, dalle letture ai voti a scuola e in seguito all’università. All’interesse affiancava consigli che secondo lui mi avrebbero reso un vincente, un qualcuno con un futuro ricco, sempre però all’interno del paese.
Tra queste due campane sono cresciuto negli anni e il considerare anche l’Avvocato uno di famiglia alla fine mi venne più che mai naturale: si contrapponeva a mio padre in ogni sua maniera di essere o di fare, ma la sua costante presenza gli faceva aggiudicare automaticamente un posto nel mio cuore. Anche se lo odiavo.
Come, infatti, non poter odiare un uomo che vive sul lavoro altrui, ama una moglie non sua e parla grazie al silenzio degli altri? Lo odiavo ma lo avevo in casa. Non potevo fare nulla per evitarlo. Nessuno può scegliersi i genitori o i fratelli, i nonni o gli zii: te li affibbiano alla nascita insieme al nome e fino ad una certa età non puoi sfuggire loro. L’Avvocato era il mio parente scomodo. Era il nome che disgustavo ma che mi faceva voltare ogni volta che veniva pronunciato.

La mattina in cui mio vero padre saltò in aria io ero sdraiato sul letto leggendo un libro per un esame. Tornato da poco dalla Capitale nelle mie intenzioni c’era il desiderio di passare l’intera estate al paesello e, per non essere costretto a lasciarlo per dare gli appelli di Luglio, avevo già deciso di lasciarmi tutti gli esami a Settembre. Sono sempre andato bene con lo studio, mi viene facile, e per questo non mi preoccupava affatto rimandare di un paio di mesi tutti gli esami. Poi volevo stare al paesello, tra la mia gente, tra i miei genitori, nella mia camera, sul mio letto.

Lo sentii fischiettare mentre si preparava, mio padre. Usciva con sicuramente la cassa di arance per l’Avvocato già tra le mani e in seguito sarebbe andato a sbrigare le solite commissioni. Qualche sera prima avevamo discusso pesantemente. Era la prima volta che rispondevo a mio padre, che colpivo per ferirlo. Mai, prima di allora, ne avevo avuto infatti il coraggio. Quando fermai il pericoloso flusso di parole, lui si alzò dal tavolo da pranzo e si chiuse in salotto, per uscirne solo più tardi ed andare in garage.
Per tre giorni non si fece vedere in giro per casa. O stava fuori in negozio e sbrigando commissioni, o in garage ad armeggiare con ancora non sapevamo cosa. Il suo fischiare arrivò dunque inaspettato. Mi lasciava piacevolmente colpito perché pensai fosse uscito indenne dal mio attacco frontale. Quasi mi stavo per alzare e scambiare qualche parola con lui, ma rimandai tutto alla sera stessa, con più calma ed approfittando di una migliore atmosfera.
Ovviamente l’occasione non ci fu. Saltando in aria mi lasciava solo col ricordo di parole dette e mai spiegate. La bomba l’aveva preparata lui per esplodere a comando, almeno così dissero in paese. La polizia non fu chiamata ad investigare. Meglio, fu pensato, continuare a tenere i fatti del paese all’interno del paese stesso. Eravamo come dieci o cinquanta piccoli indiani.
Secondo le fonti raccolte dalle voci, mio padre avrebbe voluto appostarsi all’angolo ed al momento giusto avrebbe premuto un pulsante. L’Avvocato sarebbe morto portandosi nella tomba l’odore della polvere da sparo mischiato con quello delle arance. Sicuramente ciò che più attraeva mio padre di tutto il piano era la spettacolarità di questo passaggio. Sicuramente non si aspettava di giustiziarsi pochi passi prima della porta d’entrata dell’Avvocato, ma deve aver accettato l’idea con la sua classica tranquillità: me lo immagino nei suoi ultimi secondi di vita con un calmo sorriso sulle labbra, come a voler prendersi gioco del destino che tanto gli ha tolto in vita e persino in morte. A me resta la certezza che mio padre abbia tentato di diventare giudice e boia di quell’uomo per liberare me dal desiderio di vendetta.
L’idea della vendetta mi era cresciuta dentro durante l’anno lontano dal paesello. Pensavo di tornare un giorno e sistemare tutto, come non lo so, ma avrei fatto il possibile per mettere a nudo il colpevole. Queste le parole che dissi a mio padre la famosa sera. Questo il motivo che lo spinse a quel gesto. Ma i panni si lavano in famiglia, e per lui da quella pazza famiglia paesana dovevo restarne fuori.

Lasciai il paese pochi giorni dopo, con il sorriso di mio padre nei ricordi e con l’indirizzo datomi dall’Avvocato nella tasca sinistra dei pantaloni. Non desideravo più studiare, almeno credo, ma ciò che volevo era andare in cerca del destino, con mille domande da fargli una volta incontrato.

Alla “Trattoria degli dei e degli ideali” tutti cercavano il proprio destino. Entravano con la scusa di un piatto di pasta e fagioli ed uscivano rincuorati nel non sentirsi più soli. Le loro facce nell’attesa del primo ed unico piatto, pasta e fagioli appunto, mostravano l’animo di uomini persi, abbattuti da ciò che restava fuori dalla porta di legno. In silenzio ammazzavano l’attesa mangiucchiando pezzettini di mollica staccati dalle fette di pane lasciate appositamente sul tavolo, ma quando la prima cucchiaiata entrava nel loro corpo riacquisivano il colore della speranza, non il verde, sto parlando di un rosato che diventa rosso in prossimità delle guance. Certo anche il vino dava una mano, ma, un po’ per lode e un po’ per convinzione personale, la maggior parte del merito era dovuto alla cucina di mia madre. La vedevo indaffarata su quel pentolone riscaldato dal fuoco dell’unico fornello, e girando con un mestolo di legno osservava la sua opera per poter infine urlare la buona riuscita. Mio padre accorreva a prendere i piatti e a distribuirli ai commensali e fin quando non potetti dargli una mano, rimanevo ad osservarlo dal basso, imitandolo quasi per burla, ma affascinato in realtà dalla sua eleganza. Una volta serviti i tavoli entrambi i miei genitori si sedevano chi in una tavolata chi nell’altra, ed io, sempre per imitarli, andavo a prendere posto tra altri commensali. Rimanevo lì senza prendere sonno ma ascoltando attentamente le loro parole. Fu per questo, credo, che la prima parola che imparai a dire non fu mamma e neanche pasta e fagioli, bensì libertà.
Di libertà si parlava infatti alla “Trattoria degli dei e degli ideali”: del più nobile degli ideali. Lo si poteva respirare nell’aria insieme all’odore di vino, oppure lo potevi udire tra il suono del cucchiaio contro il piatto e un brindisi improvvisato. Ma nessuno la pronunciava. Tutti parlavano di essa ma nessuno osava pronunciare il suo nome per intero, quasi a temere di sciupare con la lingua questo bene prezioso.
Io fui il primo a pronunciarla, così vuole la leggenda, in un attimo di silenzio. Dissi “Libertà” e tutti si girarono a guardarmi. Presero a ridere e a brindare perché lo pensarono un buon segno, anche se ne morirono ancora molti in seguito e senza avere la fortuna che toccò a me.
Mio padre li osservava uscire e ogni sera perdeva ore nel salutarli. Quando il giorno dopo arrivava la notizia che un altro commensale era morto, mio padre commentava dicendo che il cielo si stava riempiendo sempre più di dei, perché solo un dio ha l’onore di morire per un ideale. E si chiedeva fino a quando sarebbe durata: io posso rispondergli che durò fino al giorno esatto della sua morte. Il destino spesso sa essere molto ironico.























Foto (LipsVago/flickr)


Continua martedì 17 marzo 2009

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