Foto (Bytho/flickr)
... segue da martedì 24 febbraio 2009
Fitta. Spalanco gli occhi. Sento un bip impazzito. Quanto tempo è passato? Non sono ancora in ospedale. Fa sempre freddo e il movimento irregolare dell’ambulanza mi fa venire voglia di vomitare. Lo sento che sale. Sento qualcosa salire dallo stomaco attraverso la gola. Si blocca a metà, proprio quando gli mancava poco per uscire. Soffoco. Non entra aria. Manca aria. In tutta l’ambulanza non c’è un grammo d’aria per i miei polmoni. Come fate a respirare voi dall’altra parte? Mi guardate e respirate. Svelatemi il segreto. Insegnatemi nuovamente a respirare. Sento che soffoco. Aria. Aria. Aria.
Ne sento nuovamente il sapore. Passa e riempie i miei polmoni provocando dolore. Ma respiro. E’ dolce sulle labbra al suo passare, ma tremendamente amara nel riempire il petto.
E’ dolce come le parole di lei. Quella volta al mercato. Successivamente in un bar, con le tovaglie rosse. Parlava e parlava come se mi avesse conosciuto da una vita. Parlava e pian piano mi svelava il significato di ogni simbolo. Attento leggevo i suoi occhi con sempre maggiore chiarezza. Capivo dov’era il dolore, dove la felicità. Ogni parola si inseriva in un puzzle vuoto del mio stomaco. Ogni gesto aumentava la voglia di possedere il mistero celato al di là del sarcofago.
La cercai con sempre maggiore voglia delle sue parole. Quando era il mio turno per pedinarla lei scendeva e andavamo lontano. Passeggiavamo per il molo del porto. Parlavamo e parlando mi baciò.
Perché? Perché fa così male? Di nuovo fitte interminabili al petto. Più forti di prima. Il cuore. Lo sento. Non vuole più soffrire. Basta con questo dolore. Fa male. Stramaledettamente male. Un battito. Un bacio di lei. Un altro. Battiti e baci. Carezze e dolore. Come potrò gioire per aver raggiunto la felicità se di mezzo c’è il dolore. Forse è il momento di andare. E’ il momento di parlare al mio corpo e prendere insieme una decisione. Non posso più aspettare che sia lui a scegliere il momento. Gli dico di smettere. Smetti di soffrire. Come puoi reggere a tutto questo? Come puoi?
Il bip ha ricominciato ad impazzire. Il movimento si fa più confuso intorno a me ma non sono più nell’ambulanza. Mi portano in giro per i corridoi. Le luci cambiano di continuo. Luce. Ombra. Luce. Ombra. Luce. Ombra. Sono i fari delle macchine che passano mentre lei mi parla di suo marito. Del ritorno di lui. Del fatto che non può scappare. Non vuole. Non può lasciarlo solo. Lui l’ha tolta dalla miseria in cui viveva. Dall’infamia. L’ha rapita per portarla con se. Le ha dato una vita. L’ha trattata da regina. Lui, tanto crudele dal di fuori, era il suo angelo custode. Lui che tante vite ha stroncato, le ha regalato la propria. Le sue mani sporche di sangue tornavano a casa linde. L’odore di polvere da sparo profumava ad incenso. I calli di tanta violenza difendevano quegli occhi dai ricordi di una vita di sofferenza.
Ed io? Io non potevo fare nulla. Non ero in grado di rompere quella catena. Non potevo più vederla fino a che suo marito si fosse trattenuto in città. Dovevo allontanarmi da lei. Dovevo aspettare, in macchina, sotto casa sua, senza pensare.
Ma il pensiero non si ferma. E’ un pozzo in mezzo ad un cortile. Ci giri attorno. Lo guardi da lontano e senti il desiderio di specchiarti nelle sue acque. Allora ti avvicini con calma, cercando un punto sicuro per attaccarti. Allunghi il collo goffamente fino a quando dalle profondità di quel pozzo spunta il tuo viso. Allora rimani a contemplarlo. Nei tuoi occhi noti i suoi. Li vuoi raggiungere. Li devi raggiungere. Desideri toccarli e allunghi le mani. Sono i tuoi occhi quelli. Hai diritto a toccarli. Li puoi raggiungere senza perdere l’equilibrio, senza cadere nel pozzo.
Ma il pozzo era profondo e io vi caddi dentro. Mi abbandonai alla caduta. L’aria mi passava tra le dita, mi asciugava il sudore. L’aria che passava tra i capelli era un sollievo: smisi finalmente di pensare, mi chiedevo solo come sarebbe stato l’atterraggio. Uscii dalla macchina e raggiunsi correndo il suo portone. Le citofonai, per dirle non sapevo cosa. Mi sarei spacciato per un postino. Una raccomandata. Bastava una firma della signora, se poteva scendere un momento. Ma la signora non rispose. Solo suoni muti dall’altoparlante. Riprovai con maggiore insistenza, ma niente.
Tornai alla macchina deciso ad andarmene. Avrei percorso chilometri all’impazzata per non pensare a lei. L’asfalto avrebbe vibrato sotto il peso della mia follia che passava ad alta velocità. Ma quando sarebbe arrivato il fondo di questo pozzo?
Un passo dietro l’altro e attraversai la piazza. Giunto quasi alla macchina mi voltai verso il portone. Qualcosa stava accadendo. Sperai fosse lei che correndo cercava le mie braccia. Speravo di cadere in acque morbide. Invece mi trovai in mezzo a svariate auto della polizia. Beppe uscì da una di queste: “Si entra, lui è qui!”.
Corsi insieme agli altri verso il portone. Su per le scale. Di corsa. Ogni scalino mi avvicinava a lei. L’avrei rivista. L’avrei rivista e saremmo stati assieme. Immaginavo già il suo abbraccio, il suo sorriso, i suoi occhi per me.
E se non fosse andata così. E se nel vedermi arrestare suo marito si fosse spaventata. Se non mi avesse abbracciato ma, restando in un muto silenzio, mi avesse ucciso con lo sguardo. E se neanche lo sguardo.
Altri scalini. La mente occupata a pensare al momento dell’incontro. Momento dolce. Momento freddo. Ma pur sempre l’avrei incontrata. Le avrei parlato. Qualsiasi cosa sarebbe successa le dovevo parlare. Per spiegarmi. Per convincerla. Per farle capire. Per sentirmi di nuovo parte di lei, dei suoi occhi.
Ma non le parlai. Solo lo sparo. Solo gli ultimi secondi di caduta.
Sono stanco. Stanco. Lo sento nei muscoli, nelle ossa e finalmente arriva anche al cervello. Il dolore sta passando: lo sento già più lontano. Mi hanno spogliato. Mi stanno aprendo. Parlano. Il cuore tocca l’aria, vuole volare. Non tornerà più a soffocare nel mio corpo. Non ho forze ma mi muovo. Alzo il braccio. Guardo il polso. Il tatuaggio non c’è più. Qualcosa cambierà.
Foto (Towa-to/flickr)
Fine
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