Foto ([G]hostdog/flickr)
Modello (darkeemo/myspace)
Perché non hai mirato il cuore? Perché così vicino ma non abbastanza? Così fa male. Muoio di dolore. Mi manca il fiato ma ho voglia di urlare. Sono steso a terra. Morbida terra come fossero lenzuola. Il dolore mi assale. Grido… no, non ci riesco. Un flebile colpo di tosse: sento il sangue scorrere sulle mie labbra
Potevi almeno finirmi. Vorrei si avvicinasse a me per guardarla un’altra volta negli occhi. Vorrei mi puntasse alla testa la stessa arma che ha puntato al petto. “Spara”, le direi. Ferma questo mio ragionare sopra il dolore. Impulsi alla velocità della luce arrivano al cervello, bussano. Impulsi dolorosi come fossero ricordi. Impulsi di qualcosa che brucia, una fiamma vicina. Dolore. Il fuoco brucia dentro. Pian piano si espande: lo sento sulla pelle.
Mi ritrovo di colpo lasciato, in balia di me stesso. Respiro a fatica. Muoio. No, la morte non arriva ma quasi la desidero. Ti porteranno lontano da me. Non mi vorrai più vedere. Che senso avrà la vita allora. Meglio morire. Per mano tua.
Sento rumore intorno a me. Altri colpi di pistola. Beppe grida. Altri entrano. Passi. Piedi. Ancora urla. E io non sento niente. Non sento Beppe che mi dice di resistere. Lui dice che non è niente, ma io sento il dolore. Dice che passerà, ma io non vedo la fine. Mi incoraggia tenendomi la mano. Ma fa troppo male. Non voglio più resistere. Beppe sì, vuole che io resista. Perché?
Ora mi porteranno all’ospedale. Accanto a me appoggiano una barella: non l’avevo mai vista da così vicino. Un po’ di movimento. Non capisco cosa succede ma mi sento sollevare. Due sconosciuti portano il mio corpo stanco, ormai inutile. Non vedo le loro facce, non le distinguo, ma non importa. Niente ha più importanza adesso. Potrebbero lasciarmi qui che non cambierebbe nulla. Su questo pavimento. In questa casa. Vi ringrazio ma aspetterò la morte da solo, perché ora sono solo.
Fuori fa freddo, ma lo sopporto. Il freddo mi ha fatto compagnia negli ultimi tre mesi. Un freddo inspiegabile. Umido che ti entra nelle ossa. Stai ad aspettare in una macchina ferma, al buio perché è vietato accendere qualsiasi fonte di luce. Motore spento. Il calore di una tazza di caffè è il massimo sollievo che ti può offrire la serata.
E intanto vedi le facce. Facce passano per la via. Non ti vedono ma tu le scruti. Le giudichi. Cerchi di catalogarle nella tua testa finché non ti chiedi tu dove ti collocheresti. Chi sei? Più simile al signore che alle undici e mezza porta fuori il cane o più in sintonia con quello che cerca una donna a pagamento per passare anche la prossima ora. Bastano tre mesi per finire in mezzo a loro, del tutto: diventare uno di loro.
Mi chiedo cosa mi potrebbe salvare dal mio giudizio. Forse la divisa. Non quella di ordinanza, ma quella cucita a pelle. A casa la sera mi tolgo i vestiti e vedo riflessa allo specchio quella divisa. Non è il mio corpo. E’ il corpo di un poliziotto. Una matricola stampata sul polso indica cosa sono. Giovanni Di Bella, nato nel ’79. Nubile ma felicemente fidanzato. Una ragazza bellissima di nome Carmela.
Una ragazza che ho abbandonato nel tentativo di cancellare quel tatuaggio dal polso.
Dicono che quando stai per morire ti passi tutta la vita davanti. Ma a me vengono in mente solo ricordi tristi. Arranco nel dolore ed incontro solo altro dolore. Mi vengono in mente le urla di Carmela quando le dissi che me ne andavo via. Quando non ottenne risposte ai suoi perché. Ma quali risposte potevo darle? Non si può giustificare la rinuncia a sette anni di convivenza con uno sguardo di una sconosciuta. Non potevo dirle che non sopportavo più quello che avevo costruito in tutta la vita. Sarei impazzito nell’ammettere davanti ad un’altra persona di sentirmi imprigionato in me stesso. Per questo scappai. Attraversai quella porta per l’ultima volta nella mia vita. Giù per le scale, fuori dal portone, camminando verso la macchina. Durante tutto il tragitto mi sentivo perso. Per la prima volta nella mia vita.
Piansi di solitudine. A casa di Beppe controllai il tatuaggio sul polso e lo vidi sbiadito. Qualcosa si muoveva. La sera successiva andammo a ballare. Controllai una ad una le facce. Cercavo con disperazione uno sguardo impossibile da catalogare. Uno sguardo come il suo. Occhi tristi, melanconici, ma fieri.
Lo sguardo che cercavo quasi con disperazione era lo sguardo della moglie del latitante. Della donna sotto la quale casa ho vissuto per tre lunghi mesi. L’avevo incontrata una volta per sbaglio nel tabacchino all’angolo. Avevo incrociato i suoi occhi, mi ero fermato davanti al loro riflesso. Non riuscivo a comprenderli, non li avevo mai visti prima.
Gli occhi di quella donna divennero presto per me come un sarcofago ricco di incisioni incomprensibili ma affascinanti per la saggezza che dovevano portare con sé. Dentro vi erano sepolti i misteri di un grande faraone. Lì dovevo arrivare perché lì si trovava la soluzione al grande malessere che quegli stessi occhi avevano provocato. Prima ero solo una delle tante facce. Una maschera vagante tra tante maschere. Dopo aver conosciuto i suoi occhi iniziai a capire chi fossi, perché stessi là.
Fu la serata passata in discoteca con Beppe a darmi il segnale. La mattina successiva, come guidato da quello sguardo andai sotto casa sua. Entrai in macchina di Alberto, che era di guardia. Parlammo un po’. Gli chiesi come andava. Poi il silenzio. Lei uscì dal portone alla solita ora ma aspettai a metterla a fuoco. Aspettai per la paura che tutto fosse solo una lieve allucinazione. Che non fosse lei l’antidoto. Temevo di essere veramente perso. Poi decisi di guardarla. Aprii gli occhi e mi concentrai sul suo sguardo. Cercai di memorizzarlo tutto per decifrare in seguito gli ideogrammi delle sue pupille. La guardai intensamente e lei si accorse di me. E fummo i soli ad entrare in contatto quella mattina in quella piazza. Alberto non si accorse di nulla. I passanti passavano. Senza notarci.
Ho sempre pensato al giorno del mio funerale. Alle persone che davanti alla bara piangono e pensano a te. Lei non ci sarebbe al mio funerale, ma passerebbe qualche anno più tardi per salutare la mia tomba, per avere un ultimo attimo di intimità con me solo. Leggerebbe l’epitaffio e nel passare una ad una quelle lettere capirebbe l’importanza di ciò che è stata per me. Piangerebbe davanti a quelle parole.
Le parole però... quali parole? Non posso andarmene così senza decidere le mie parole. Le sceglierebbero gli altri per me. “Morto per servire la patria”. No. Questo mai. Vi prego. Non fatemi morire in divisa. Non seppellitemi insieme ad un tricolore di cui non comprendo più l’importanza. Sono morto per lei. Diteglielo. Come potrò comunicare con lei se sulla bara non saranno scritte le mie parole.
Con lo sguardo cerco Beppe. Giro la testa. Bloccata. Non si muove. Gli occhi! Li apro e li muovo. Alla mia destra trovo il mio amico: tutt’attorno è l’interno dell’ambulanza e seduto al mio capezzale c’è lui. Gli si illumina lo sguardo nel vedermi aprire gli occhi. Lo guardo. Provo a parlargli. E’ una cosa urgente. Devo dirgli di non far scrivere nulla sulla mia bara. La voglio vuota. Lo guardo ancora ma è inutile. Non riesco a parlare. Richiudo gli occhi e mi immergo nuovamente nel mio dolore.
“Morto dopo esser stato felice”. Questa è una frase che un morto vuole lasciare a chi gli è stato accanto! Per dire a Carmela che esiste la felicità anche al di fuori delle maschere di tutta una vita. Per dire a Beppe di cercare altrove: io sono stato felice perché sono fuggito da quella divisa che ci accomuna. Per parlare un’ultima volta con lei.
Ma in effetti la morte smentirebbe quelle parole. Felice sì, ma morto. Come il famoso vincitore della lotteria che morì il giorno dopo la vincita. Comprereste il biglietto sapendo che potrete gustarvi la vittoria per un solo giorno?
“Morto perché è stato felice”. Così suonerebbe il tutto. Li spaventerei tutti. Fuggirebbero dal ciò che sono stato. Avrebbero paura di tornare sulla mia tomba. Mi lascerebbero solo per l’eternità, non volendo neanche portare con se il ricordo del mio atto di eroismo.
Innazitutto complimenti per il tuo blog:
RispondiEliminaho letto i tuoi racconti e secondo me hai delle buone idee: sviluppale e puliscile...
se posso darti un consiglio,modestissimo: ricordati di non essere troppo concentrato su te stesso quanto scrivi: fai in modo che il lettore capisca quello che provi ma non dirglielo direttamente. Usa gli oggetti anzichè i tuoi sentimenti e sensazioni...ma è solo un consiglio.
aspetto il prossimo frammento/racconto.
Godowski
grazie per l'ottimo consiglio signor J, mi sembra molto azzeccato..
RispondiEliminaAllora al prossimo martedì..
Ignazio
Abbastanza d'accordo col Signor J, anche se secondo me il racconto è comunque godibile.
RispondiEliminaIn attesa del finale (che non me lo ricordo), datti una mossa e aumenta la produzione che la scadenza settimanale va ridotta...
a breve la scadenza settimanale sarà accompagnata da foto e interventi su dove sia finito Paolo Nollo, quindi creativi, scrittori, fotografi e semplici cazzeggiatori del web, preparatevi..
RispondiEliminaIgnazio